lunedì 30 dicembre 2013

Books vs Movies #2: Lo hobbit: La desolazione di Smaug

Salve a tutti e buone feste! (per Natale sono un po’ in ritardo, ma sono ancora in tempo per il Capodanno)

Locandina del film.
Oggi torniamo un attimo alle rubriche del blog, in particolare a “Books vs Movies”. Considerato che a Venezia io non ho la televisione e i cinema sono imbucati neanche fossero luoghi di contrabbando, da quando sono tornata ho potuto vedere tutta una serie di film, e mentre alcuni sono stati dei gioielli, altri mi hanno lasciata senza nemmeno il ricordo del titolo. Ho visto, ad esempio, “Frozen – Il regno di ghiaccio”, che è riuscito ad essere un capolavoro Disney anche se lievemente ucciso dal doppiaggio; “Vita di Pi”, il pluricandidato ai premi Oscar che purtroppo se ne è beccati solo quattro, anche se uno alla miglior regia; “Il grande e potente Oz”, di cui mi chiedo ancora se volesse essere in qualche modo un film parodico oppure serio; “Grandi speranze”, che nonostante la presenza di Helena Bonham Carter nel ruolo della signorina Havisham, non è stato per nulla più entusiasmante del romanzo; ho visto, poi, esattamente il giorno dopo essere tornata a casa, “Lo hobbit – La desolazione di Smaug”. Ed è di questo che voglio parlare.
L’anno scorso, dopo avere visto la prima parte di questa improvvisata trilogia, ho voluto provare a leggere il libro. Da premettere che, ahimè, “Il signore degli anelli” è l’unico libro che io non sia mai riuscita a finire. Lo dico con rammarico e prometto che quest’estate mi metterò d’impegno e ritenterò l’impresa. In ogni caso ho comprato “Lo hobbit” in una nuova edizione e l’ho iniziato. Vi giuro che sembrano scritti da persone diverse. “Lo hobbit” ha lo stile semplice delle narrazioni fiabesche, con molti avvenimenti concentrati uno dietro l’altro e conclusi abbastanza velocemente e personaggi davvero poco caratterizzati. Insomma, un po’ come leggere una fiaba molto lunga. Potete ben capire che per tirare fuori tre film da due ore e mezza ciascuno da un unico romanzo, qualche taglia e incolla lo hanno dovuto fare. Spesso ci lamentiamo del fatto che i film tratti dai romanzi lasciano da parte scene che noi consideravamo fondamentali. Quando però da un romanzo, al contrario, si traggono tre film, molto più del necessario, bisogna invece aggiungere.
Non sto qui a parlarvi nel dettaglio del primo film, che, se non sbaglio, si fermava alla fine del sesto capitolo del libro. Parliamo direttamente de “La desolazione di Smaug”.
Innanzitutto il mio giudizio: l’ho adorato. Per quanti si lamentano del fatto che la prima scena, quella in cui i nani vengono accolti nella casa di Beorn, è poco chiara, sappiate che la parte ambientata qui, nel libro, era più lunga e più dettagliata. So che le scene relative sono state effettivamente girate, ma poi è stato scelto di tagliarle durante il montaggio (un po’ come nella seconda parte di “The amazing Spider-Man”, per cui hanno girato le scene di Shailene Woodley nei panni di Mary Jane ma poi hanno deciso di tagliarle tutte, perché non sarebbe stato un bene presentare Mary Jane nello stesso film in cui Gwen Stacy.. be’, se non lo sapete non voglio fare spoiler). Le scene saranno tuttavia presenti nella versione estesa quando uscirà il DVD.
Oltre a questo, il viaggio attraverso Bosco Atro è rispettato piuttosto fedelmente, mentre gli stravolgimenti, a mio parere del tutto azzeccati, iniziano con l’arrivo degli elfi.
Evangeline Lilly nei panni di Tauriel

Per dirne una, Tauriel non esiste. Non si fa affatto menzione di lei nel romanzo, figuriamoci di una mezza cotta tra lei e il nano Kili (come dicevo, i personaggi sono poco caratterizzati, quindi Kili nel libro è un nano tra i nani). Ma oltre al fatto che, data la massiccia presenza di orchi (nel libro tutto questo via vai di orchi non c’è), qualche battaglia ci stava, e oltre al fatto che Evangeline Lilly è un’elfa perfetta, e che be’, gli elfi sono le creature che preferisco tra tutte quelle dell’universo di Arda, un pizzico di focalizzazione su di loro ci stava, che fosse su un personaggio esistente o meno.
Orlando Bloom nei panni di
Legolas.
Legolas. Legolas non compare nel libro, ma a mio parere era del tutto scontato che ci fosse. È il figlio del re degli elfi silvani, e visto che si sa che loro non andavano granché a zonzo per la Terra di Mezzo, mi pare ovvio che dovesse stare a palazzo o comunque nei paraggi del palazzo. Nel momento in cui il film focalizza su queste creature, ecco che viene reintrodotto Legolas. Anche se non ci fossero state queste ovvietà di fondo, comunque, lo trovo un ottimo modo per collegare le due trilogie.
Orlando Bloom, diciamocelo, non è più il giovinetto etereo di quando ha girato “Il signore degli anelli”. Ma santo cielo, sono passati più di dieci anni. Ian McKellen come Gandalf non sembra cambiato perché, senza offesa, era già vecchio anche allora (per quanto anche nel suo caso qualche ruga in più si noti). Orlando Bloom invece quanti anni ha, 36? Tra 36 e 26 la differenza si nota eccome. A me, in ogni caso, non è dispiaciuto affatto. Nemmeno il suo cambiamento di temperamento. Era molto più filosofico nell’altra trilogia, mentre qua è in qualche modo più adolescente. Testa dura e calda e un interessamento per Tauriel. Ho anche apprezzato molto la scelta di fare surfare Legolas sulle teste dei nani mentre combatte contro gli orchi. Il surf è il segno distintivo di Legolas anche nell’altra trilogia, nemmeno avesse sempre uno skate sotto i piedi (in “Le due torri” effettivamente usa uno scudo come skate, mentre ne “Il ritorno del re” surfa tranquillamente sulla proboscide dell’elefante abbattuto).
Lee Pace nel ruolo di
Thranduil.

Devo dire poi che Thranduil, suo padre, che nel romanzo non potevo soffrire perché rendeva palese quanto questi elfi siano diversi da Elrond, Galadriel e compagnia, che erano così eterei mentre questi sono molto pratici e attenti ai propri interessi, qui mi è anche piaciuto. Sembrava che volesse proteggere il suo territorio dal male incombente, come è giusto che sia. Ed è pure un padre preoccupato per suo figlio.
A proposito di Gandalf, anche la sua avventura è più complessa che nel romanzo. Principalmente perché nel libro sappiamo solo che va ad occuparsi del Negromante, ma non viene descritto né come né con l’aiuto di chi, ammesso che venga aiutato (perché, ancora una volta, nel romanzo Radagast quasi non esiste, viene solo menzionato, una sola volta, il suo nome). Qui invece si ritrova intrappolato dal Negromante/Sauron, mentre gli orchi vanno ad invadere la Terra di Mezzo. Ed è pure ovvio che non sia riuscito a sconfiggere Sauron. In fondo era solo Galdalf il Grigio, allora.
Tornando invece ai nostri nani, la loro vicenda cambia nel momento in cui devono separarsi perché Kili ha una punta di freccia avvelenata nella gamba. Quindi lui, suo fratello Fili e altri due nani rimangono nella città di Pontelagolungo, dove vengono accolti in cambio della promessa di spartire il bottino della montagna con loro. Mentre gli altri, riforniti e pieni di speranze, vanno alla montagna, dove, grazie a Bilbo, riescono ad entrare.
Qui Bilbo viene a sapere che il motivo per cui lui è stato trascinato in quell’avventura è che deve prendere, da tutto il bottino di Smaug, l’arkengemma, il cuore della montagna. Peccato che la montagna d’oro sia effettivamente una montagna d’oro, e che fare silenzio mentre si cerca qualcosa lì dentro non è propriamente facile. Ovviamente Smaug si sveglia, e, come nel libro, si intrattiene a parlare con Bilbo. Ma non c’è l’entra ed esci che Bilbo fa nel romanzo. Semplicemente ad un certo punto i nani vengono in soccorso di Bilbo e ingaggiano un’infruttuosa lotta contro Smaug. Questa parte nel libro non esiste, ma ancora una volta ho apprezzato molto l’aggiunta. Paradossalmente, nel libro la parte più statica era stata questa, in cui non succedeva quasi nulla e i nani erano bloccati fuori dalla montagna.
Dall’altro lato, in città arrivano gli orchi, ma fortunatamente Tauriel, preoccupata per Kili, li aveva seguiti, e con lei Legolas. Fantastica la scena in cui, nella lotta contro l’orco capo, Legolas sanguina lievemente dal naso perché colpito, e fa una faccia infuriata. In tutte le battaglie de “Il signore degli anelli”, Legolas collezionava a malapena una spolveratina sulla fronte mentre Aragorn era sporco, sudato, incrostato di sangue suo e altrui. Il sangue dal naso di Legolas è stato un affronto. Ora quell’orco lo voglio morto tra le più atroci sofferenze.
Smaug.

Il film in definitiva si conclude con Smaug scocciato e grondante di oro fuso che va a bruciare la città di Pontelagolungo (che mi pare però si chiamasse Esgaroth, nel libro), dove Kili è stato appena salvato da Tauriel, da dove gli orchi sono stati allontanati da Legolas, mentre altri orchi marciano su ordine del Negromante-Sauron e Gandalf è intrappolato in una gabbia, mentre speriamo che Bard, nuovo, importantissimo personaggio presente in questo film, sarà in grado, nel prossimo, di uccidere Smaug (cosa che mi dispiacerà alquanto, perché Smaug è diventato, nel film, un meraviglioso personaggio).
Non mi sento in grado di affrontare il discorso degli effetti speciali, perché non mi intendo affatto di dettagli tecnici. Era un film fatto palesemente per il 3D, ma sono pochissimi ormai quelli che NON sono fatti per il 3D. D’altronde meglio così piuttosto che in un film come “Alice in Wonderland”, dove il 3D è stato appiccicato dopo e nel film in totale in 3D c’erano quattro piante. Non ho nemmeno trovato fastidiose più di tanto le nuovissime lenti a contatto di Legolas, molto più chiare e luminose che nell’altra trilogia (se è per questo aveva pure una parrucca più crespa, ma amen). Il fatto che i nani e le altre creature siano rese in maniera diversa che nella trilogia originale mi sembra una scelta del tutto azzeccata. Qui gli orchi sono meno spaventosi, meno squallidi, meno terrificanti. I nani sono meno realistici, più coloriti e stereotipati. Ed è tutto in linea con il romanzo, la cui aria era certamente molto più leggera di quella de “Il signore degli anelli”. Basta guardare i colori per capirlo. Qui ce ne sono tanti, ci sono luci e colori, e il buio vero e proprio c’è solo laddove si trova Sauron, perché in effetti è lui a portare ombra e oscurità sulla Terra di Mezzo. Ne “Il signore degli anelli”, se non contiamo le scene della Contea, il sole sbucava ogni ora e mezza di film. E la maggior parte delle volte sorgeva rosso, segno che di notte c’era stata una battaglia, a detta di Legolas.
Da parte mia, quindi, attendo con ansia il seguito, sperando ardentemente che cambino un po’ la fine, perché venivano fatti fuori senza tanti preamboli alcuni personaggi a cui tengo molto. E al film, dovessi dare un voto, darei il massimo.
Bellissima, vorrei aggiungere, anche la colonna sonora, ma da quel punto di vista non mi sono mai preoccupata. Ancora una volta la canzone finale è meravigliosamente azzeccata.
Devo dire che sono anche curiosa di vedere il film in originale, perché Smaug è doppiato da Benedict Cumberbatch e a detta di Peter Jackson è stato questo a rendere il personaggio migliore, più psicotico che malvagio.
Per concludere: il libro mi era piaciuto, ma credo che il film mi sia piaciuto di più. Le immagini descritte da Tolkien si prestano benissimo alla trasposizione cinematografica, e le aggiunte e gli stravolgimenti vari sono stati graditissimi.
A presto, quindi, spero, con un altro “Books vs Movies” su “Hunger Games: La ragazza di fuoco”, che ho visto molto prima de “Lo hobbit” ma di cui non avevo altrettanto voglia di parlare.
Smack,

Andra

P.S. Vi lascio con "I see fire", la canzone principale del film, cantata dal mio adorato Ed Sheeran:


martedì 24 dicembre 2013

Salviamo il mondo: regaliamo un dizionario.

Salve lettori!
Mi scuso per il silenzio stampa che c’è stato ultimamente, ma tra impegni universitari non ho avuto né il tempo né la voglia di scrivere, e a differenza della maggior parte delle persone sul pianeta io ritengo che quando non si ha nulla da dire sarebbe meglio stare zitti.
Ma oggi le idee sembrano tornate, quindi ne approfitterò per produrre qualcosa.
In particolare questo post lo dedico a un’altra delle mie lezioncine di italiano, che temo non risulterà particolarmente interessante, ma amen.
Qualche giorno fa mi è capitato di essere contraddetta (e Dio solo sa quanto io detesti essere contraddetta, soprattutto quando ho ragione, e soprattutto quando si tratta di questioni linguistiche!) sull’uso di alcuni vocaboli. Il problema non era affatto l’uso dei miei vocaboli, quanto l’ignoranza degli interlocutori dei vocaboli stessi. Spesso e volentieri la somiglianza nel suono (o anche nello scritto) di alcune parole, o il loro significato affine, fa in modo che le due o più parole si confondano, e che ne venga preferita una e l’altra bollata come inesistente. A quanti fanno questo errore desidererei ardentemente regalare un dizionario completo della lingua italiana. Visto che i fraintendimenti sono troppi per poterli anche solo pensare tutti, oggi mi concentrerò solo su alcuni di essi: la differenza tra “simpatico” ed “empatico”, tra “tondo” e “cerchio”, “fisionomia” e “fisiognomica”, “inedita” e “inedia”, “impiantare” e “trapiantare”. Non sembreranno tutte di uso comune, ma in realtà io vi faccio ricorso abbastanza spesso.
Vediamo le prime due. Innanzitutto l’uso. Diciamo “Sono simpatico a qualcuno” ma “Sono empatico nei confronti di qualcuno”. “Simpatico” è un vocabolo usato quasi quotidianamente, sebbene con significato diverso da quello originario. Quando diciamo di qualcuno che è simpatico, a volte intendiamo che è divertente. Mentre non vuol dire esattamente questo. Deriva infatti dal greco “sympàtheia”, collegato al verbo “sympatèo” che indica il compartecipare al sentimento di qualcuno. Il dizionario etimologico dà come definizione “inclinazione istintiva, che attrae una persona vero l’altra; facoltà di partecipare ai sentimenti dei nostri simili, ai loro piaceri e dispiaceri”. Tuttavia nel linguaggio comune questo significato, trasferitosi alla parola “empatia”, si è perso, e adesso classifichiamo come simpatica una persona di cui la compagnia non ci dispiace. Piacevole. Divertente. “Empatia”, invece, altrettanto derivante dal greco antico, “empathèia” (= “dentro la sofferenza”), è una capacità di comprendere lo stato d’animo altrui. È quindi una forma di comprensione. In conclusione: io posso essere una persona simpatica, perché magari le mie battute divertono. Ma non è detto che io sia una persona empatica, perché magari non noto mai come stanno gli altri intorno a me. Viceversa posso essere una persona empatica e notare sempre lo stato d’animo altrui, ma posso essere una spina nel fianco per tutti.
“Tondo” e “cerchio”. Innanzitutto il primo viene usato più come aggettivo che come sostantivo. Il vocabolario Treccani lo presenta infatti prima come aggettivo. Non che cambi qualcosa, il significato è comunque quello. Una cosa tonda è di forma circolare, ma esprime minore regolarità di contorni. Non è quindi un sinonimo di “sferico”. Né, se usato come sostantivo, di “cerchio”. Un cerchio e una sfera sono regolari e per questo considerati forme geometriche perfette. Per cui posso riferirmi a me stessa come ad una persona “tondetta” ma non posso di certo dire di essere “sferica” (grazie al cielo). Tonda è la terra, che è irregolare (tecnicamente è un geoide, ma non sto qui a sciorinare il mio sapere sull’astrofisica). Tonda è una mela, che è palesemente non sferica. Tondo è anche un cilindro, che avrà anche la base circolare, ma questo non lo rende perfetto alla pari di cerchio e sfera. Per cui io posso anche far passare a Jovanotti la licenza poetica di dire “bella come un tondo” nella sua canzone senza sentirmi offesa, ma se un ragazzo qualunque mi dicesse che sono tonda non entrerebbe di certo nelle mie grazie.
“Fisionomia” e “fisiognomica”. Credo che la maggior parte delle persone – dei miei conoscenti sicuramente – sconosca il secondo vocabolo. Io ricordo anche precisamente in che ambito l’ho sentito usare per la prima volta: storia dell’arte. Tanto, tanto tempo fa. Ma andiamo in ordine. “Fisionomia” indica le fattezze di un individuo. Si riferisce all’espressione che deriva dall’insieme dei suoi lineamenti. “Fisiognomia” (da cui l’aggettivo “fisiognomico”) è legato alla fisionomia perché senza questo concetto base non potrebbe esistere. La fisiognomia è una pseudoscienza che pretende di dedurre il comportamento di un individuo sulla base del suo aspetto fisico. Tra il XVIII e il XIX secolo questa teoria fece furore, e piuttosto celebre (ma considerando quanta gente conosce questo vocabolo, a quanto pare non è così celebre) fu il caso di Cesare Lombroso, antropologo e criminologo, che pretese di condannare alla pena di morte tutti quelli che, secondo le caratteristiche fisiche, sarebbero diventati criminali. Secondo lui queste persone non potevano essere educate, perché la criminalità era loro innata, quindi tanto valeva farle fuori subito.
 “Inedita” e “inedia”. Qui la spiegazione è breve, perché le due parole hanno a che fare l’una con l’altra quanto uno pterodattilo con un coniglio domestico. “Inedito” è uno scritto non ancora pubblicato. “Inedia” è la prolungata astensione da cibo, che, portata all’estremo, provoca la morte.
“Impiantare” e “trapiantare”. Il primo è una sorta di intensivo del verbo “piantare”, che può essere usato in ambiti diversi da quello delle piante. Inserisco qualcosa di nuovo in un posto nuovo. Lo fisso saldamente in un posto. Quel qualcosa diventa radicato nel suo nuovo ambiente. Il secondo, invece, vuol dire spostare qualcosa dal posto in cui si trovava prima e inserirlo altrove.
Come dicevo, mi sa che questa volta la lezioncina è stata un po’ noiosetta. Ma l’ho trovata liberatoria. Il fatto che qualcuno dei miei lettori adesso sappia la differenza tra questi termini (ammesso che non la sapesse già, ovviamente) è una soddisfazione sufficiente per me. Non si rivoluziona il mondo in una notte.
A prestissimo con un post sul Natale in Romania e con due numeri della rubrica “Books vs Movies”!
Smack,

Andra