mercoledì 19 febbraio 2014

Recensione #3: Silver di Kerstin Gier

Salve a tutti!
Stranamente torno a scrivere con una nuova recensione, invece che con una rubrica o con qualche post random, come mi sarei aspettata di fare. E lo so che continuo a dover pubblicare il numero di “Books vs Movies” dedicato a “La ragazza di fuoco”, ma davvero non ne ho voglia. Non perché le mie impressioni siano negative, tutt’altro. Semplicemente non riesco a mettere insieme tutti i pensieri, quando si tratta della trilogia di “Hunger Games”.

Così sono qui a parlarvi di “Silver” di Kerstin Gier, primo romanzo di una nuova trilogia dell’autrice. Autrice di cui amo, anzi, più che amo, adoro, il precedente lavoro, “La trilogia delle gemme”, composta dai volumi “Red”, “Blue” e “Green” (opera precedente per noi che siamo in Italia. L’autrice, originariamente tedesca, ha pubblicato in realtà moltissimi romanzi di cui non abbiamo la traduzione, e questa è l’unica volta nella mia vita in cui rimpiango di non sapere il tedesco). Senza remore posso affermare che la “Trilogia delle gemme” sia la mia trilogia preferita in assoluto. Mescola un insieme di elementi per cui non riuscirei a classificare facilmente i suoi romanzi. Al massimo potrei dire che sono “Young adult”, anche se non so fino a che punto il libro si trovi comodo in questa classificazione. “Silver”, primo di quella che si chiama “Trilogia dei sogni”, appartiene comunque allo stesso genere. Un Urban Fantasy molto light, ironico, non particolarmente impegnato, con personaggi buffi e strampalati, niente cattivi dal tragico passato, niente protagonisti in piena crisi mistico-esistenziale a causa della loro nuova identità.

Per farvi capire quanto mi sia piaciuta, basta andare a ripescare la mia classifica dei dieci personaggi femminili migliori degli YA e osservare che la protagonista de “La trilogia delle gemme”, Gwendolyn, e la sua migliore amica Leslie, occupano rispettivamente il secondo e il terzo posto. Due personaggi della stessa storia nella top 3. (Qui il post, se volete dare un'occhiata)

Oltretutto, nella mia segretissima e nascostissima lista (sono una fanatica delle liste. Ne ho stilata persino una dei migliori complimenti e peggiori insulti che io abbia ricevuto/possa ricevere, e la gente che mi conosce sarebbe davvero sorpresa di sapere quante volte al giorno mi offende, secondo tale lista) dei personaggi maschili libreschi per i quali ho avuto una cotta spassionata, Gideon, co-protagonista di Gwendolyn, è indicato con due stelline e mezza (il massimo è tre, ma dopo le tre stelline c’è il cuore, al primissimo posto) che stanno a significare “personaggio su cui mi sono fatta decisamente troppi filmini mentali”.
Inoltre, la già citata Leslie comparirà anche in un altro numero della rubrica “Besties”, che pubblicherò spero non tra molto.

Dopo queste dovute premesse, passiamo a “Silver”. Ovvio che io sia partita con aspettative che superavano la GRB 090423, ovvero la stella più lontana dalla Terra che sia mai stata avvistata (la sua esplosione risale a 13 miliardi di anni fa, non troppo tempo dopo il Big Bang). D’altro canto, però, una naturale sfiducia nella capacità di autori, registi, sceneggiatori vari di propormi una storia di cui io non possa indovinare la fine dopo il primo capitolo, o spezzone di film, o puntata, mi portava a pensare che avrei potuto perdere fiducia nell’autrice, perché temevo che la storia potesse essere banale.

Tanto per dirne una, poiché i tre volumi della prima saga di chiamavano “Red”, “Blue” e “Green” (in originale “Rubinrot”, “Saphirblau” e “Smaragdgrün”, ovvero rosso-rubino, blu-zaffiro e verde-smeraldo) ho ovviamente pensato che il seguito di “Silver” si sarebbe chiamato “Gold”, e il terzo volume “Platinum”. Scusate, ma dubitare è lecito. Pensavo che, essendo “Silver” il cognome della protagonista, però, magari non sarebbe stato così. E ho appena scoperto che la mia seconda ipotesi era giusta. A quanto ho capito anche gli altri si chiameranno così, con l’aggiunta di un sottotitolo.
Inoltre, dopo avere indovinato tutta l’esatta trama e la fine precisa nel dettaglio di “Shadowhunters, le origini: La principessa”, ultimo volume della trilogia vittoriana di Cassandra Clare, capirete bene che pensavo di capire dove la trama volesse andare a parare sin da questo primo volume.

Ebbene, sono davvero deliziata di dirvi che non ho la più pallida idea di dove la trama voglia andare a parare. A maggior ragione perché la storia sembrerebbe essersi conclusa più o meno decentemente così. Cioè, mi spiego meglio: alcune cose rimangono in sospeso, e viene anche introdotto un cliffhanger finale, ma non sono cose che ti fanno rimanere con il fiato sospeso a mangiarti le unghie fino a farle sanguinare aspettando il seguito.

Adesso, visto che ho l’impressione che la recensione andrà degenerando in una serie di considerazioni senza logica (a mia discolpa ho finito di leggere il libro cinque minuti prima di stilare la recensione, e l’ho letto in solo qualche ora, quindi capirete che sono un po’ trafelata), cercherò di fare un po’ di ordine, e stilare innanzitutto una lista (tanto per cambiare) di quello che vorrei dire: la trama, senza spoiler; considerazioni sui personaggi; ipotesi su cosa potrebbe accadere in futuro; paragone con la trilogia precedente.

Bene, iniziamo dalla trama. Poiché ho ereditato dalla nonna materna la totale incapacità di raccontare una trama senza andare nel dettaglio di ogni vicenda (di solito, a voce, il racconto di una trama da parte mia dura più o meno quanto la lettura del romanzo stesso), vi risparmio pagine e pagine di sproloqui e ricopio la trama papale papale dalla copertina:

Le porte dei sogni.
Porte con maniglie a forma di lucertola che si spalancano su luoghi misteriosi, statue che parlano, una bambinaia impazzita che si aggira con una scure in mano… I sogni di Liv Silver, quindici anni, negli ultimi tempi sono piuttosto agitati. Soprattutto quello in cui si ritrova di notte in un cimitero a spiare quattro ragazzi impegnati in un inquietante rituale esoterico. E questi tipi hanno un legame con la vita vera di Liv, perché Grayson e i suoi amici sono reali: frequentano la stessa scuola, da quando Liv si è trasferita a Londra. Anzi, per dirla tutta, Grayson è il figlio del nuovo compagno della mamma di Liv, praticamente un fratellastro. Meno male che sono tutti abbastanza simpatici. Ma la cosa inquietante – persino più inquietante di un cimitero di notte – è che loro sanno delle cose su Liv che lei non ha mai rivelato, cose che accadono solo nei suoi sogni. Come ciò possa avvenire resta un mistero, esattamente il genere di mistero davanti al quale Liv non sa resistere…

Oddio, non apprezzo particolarmente il modo di esporre la trama sulle copertine dei romanzi, perché spesso depistano quanto i trailer maledetti dei telefilm della CW, che mostrano scene che non avverranno mai (se seguite “The Vampire Diaries”, soffrite certamente per questo motivo) o fanno intendere cose che avverranno in tutt’altro modo. Oltretutto sono scritte in un modo che vorrebbe apparire accattivante, e invece secondo me banalizzano all’estremo. Ora non so voi, ma per come è esposta la trama di “Silver” io non lo leggerei. È scritta che nemmeno la trama di un libro di Geronimo Stilton.
Mi sento in dovere di completarla (ed ecco che non mantengo fede al mio impegno di non dire troppo, ma prometto, prometto davvero che non farò spoiler): Liv ha quasi sedici anni, una sorella minore di nome Mia di tredici, una bambinaia tedesca di nome Lottie, una madre insegnante di letteratura, un padre ingegnere, genitori separati, troppi traslochi alle spalle nei posti più lontani (da Berkeley in California ad Sudafrica), una passione per Sherlock Holmes, una cagnolina di nome Princess Buttercup formerly knwon as Doctor Watson (ma detta solo Butter) ed è esperta di kung fu.
Si trasferisce a Londra dove la madre ha trovato un nuovo compagno, Ernest Spencer, il quale ha due figli gemelli di diciassette anni, Grayson e Florence, e un gatto di nome Spot.
Grayson ha tre migliori amici che sono strafighi quanto lui: il mio preferito Henry, “Ken-look-con-barba” Jasper, “il ragazzo più bello dell’emisfero occidentale” Arthur.

Detto questo posso iniziare a fare le mie considerazioni: Liv è una protagonista come si deve. È bella, ma non lo sa e non ci si sente, ma non per questo è complessata del tipo “nessuno al mondo mi vuole”, e ringrazio Dio per questo, come ringraziavo per la stessa qualità in Gwendolyn, nell’altra trilogia. Una ragazza non può essere consapevole di non essere Charlize Theron senza che tutti quanti le inizino a fare il lavaggio del cervello su come “Ma che dici! La vera bellezza sta dentro di noi, ognuno è bello così com’è, non sei affatto brutta, non deprimerti, non essere complessata, il mondo è bello perché è vario, non piangere sul latte versato, più buio di mezzanotte non può fare, non bagnarti prima che piova, ambarabaciccicoccò”. Liv è consapevole dei suoi difetti ma non se ne fa un cruccio, anche perché gli altri la trovano bellissima ugualmente. Oltretutto è intelligente, di quelle intelligenze vispe, non da secchione, spiritosa, ironica e autoironica, razionale senza diventare bacchettona. Ma è anche una ragazza di quasi sedici anni che si prende una cotta (a mio avviso anche più di una) e, come tutte le persone innamorate, quando compare lui lei è tutta zucchero filato rosa e unicorni alati che volano verso il tramonto.

La sorellina, Mia, ha davvero un bel caratterino, è pungente e sagace ed è ancora in quell’età in cui l’altro sesso è una minaccia e le smancerie da coppiette sono vomitevoli.
Lottie è tutta un programma. Così adorabile che non si può non amarla.
La madre delle ragazze in realtà non la sopporto granché. Più di una volta avrei avuto voglia di urlarle addosso, perché è una di quelle madri che hanno l’impressione che le figlie abbiano perennemente tre anni e le mettono in imbarazzo in continuazione. Orrore.
La famiglia di Ernest è una di quelle famiglie perfettine, i cui figli, tra l’altro, sono esageratamente belli, senza che questo rechi particolare disturbo a Liv e Mia. E il fatto che Florence abbia scatti di isteria perché molto contrariata di dover convivere con la neo-acquisita famiglia, invece di renderla insopportabile, la rende simpatica agli occhi delle sorelle.

Grayson, Grayson, Grayson. Dove vuole andare a parare il tuo personaggio? Ne tratterò nella sezione sullo ipotesi per il futuro. Ad ogni modo lui e i suoi amici sono i più popolari della scuola, e, se io avessi avuto dei ragazzi come loro nel mio liceo, invece della fauna che lo popolava, non li avrei certo biasimati per essere il centro dell’attenzione. Certo è un po’ un cliché che i ragazzi che introducono l’elemento misterioso nei romanzi/film/telefilm debbano sempre essere degli strafighi che nemmeno il sole è così luminoso. Mi chiedo se non sia il mistero stesso che li contagia e li rende più belli. Questo spiegherebbe perché invece nel mondo reale c’è penuria di abbaglianti bellezze maschili. Non succede niente di strano = niente mistero = niente bellezza michelangiolesca.

I ragazzi sono estremamente diversi tra di loro, e il fatto che siano quattro aumenta il numero di lati che la figura geometrica amorosa assumerebbe se ci fosse un particolare interesse della protagoniste per tutti loro. Insomma, più che un tradizionale triangolo qui potremmo avere un pentagono. Ma per fortuna non tutti sembrano essere concorrenti di questo gioco. Il bellissimo Arthur, ad esempio, non parteciperebbe a questa ruota della fortuna. E me ne compiaccio, perché, sebbene sia considerato il più bello, è anche quello che mi piace di meno.
Lo stupido Jasper è così ingenuamente scemo che gli voglio bene. Non si può odiare lo scemo della situazione. Credo che anche lui sia troppo preso dalla sua ex, con cui ha un rapporto conflittuale, per interessarsi davvero a Liv, sebbene sia stato lui a notare per primo la sua bellezza (precisamente le sue belle gambe)  e abbia anche tentato di usarla come esca per ingelosire l’ex di cui sopra.
Rimane quindi Henry. Che è il mio preferito, perché le brave ragazze devono sempre cascare come le pere cotte per i ragazzi strafottenti e misteriosi. Henry ha l’aspetto meno angelico dei nostri fantastici quattro, quello che tiene più cose per sé, quello il cui comportamento non è sempre – veramente quasi mai – cristallino, quello che insomma fa sciogliere me come burro al sole.

Passiamo alle ipotesi su cosa potrebbe accadere, e qui devo fare due piccole premesse (tanto la recensione è già un papiro):
  1. Per tutta una serie di ragioni, sono portata sempre a elaborare teorie della cospirazione.
  2. Dopo avere letto il romanzo “Proibito” di Tabitha Suzuma, non mi faccio più di tanto problemi per le storie d’amore tra fratell(astr)o e sorella(stra).
Tra breve capirete perché ho fatto questo due affermazioni.

Quello che ho tralasciato di dire è che nella scuola di Liv esiste un blog chiamato “Tittle-tattle”, tenuto da un/a certo/a Secrecy, una sorta di Gossip Girl che sa i fatti di tutti e si premura di spiattellarli sul suo blog. Ora, considerando che sono reduce da una maratona di una stagione di “Pretty Little Liars” nel weekend, potete ben capire (se conosce la serie) che non posso pensare che una persona che ottiene informazioni sui fatti di tutti li ottenga in modo ortodosso. Ecco da dove viene fuori la mia teoria della cospirazione. Però, devo ammettere, l’ultimo post del Tittle-talle citato nel romanzo sembrerebbe indicare che Secrecy non sappia proprio tutto, ovvero non sappia cosa è successo davvero a Liv e ai fantastici quattro, e non sospetti strane attività da parte loro, come l’incontrarsi nei sogni, che, nel caso avessi dimenticato di dirlo, è il fulcro del romanzo. Staremo a vedere se Secrecy avrà un ruolo più importante nella storia dal secondo volume in poi. D’altra parte, gli spezzoni che dividevano i capitoli ne “La trilogia delle gemme” erano come i pezzi di un puzzle che il lettore poteva mettere insieme per costruire pian piano la verità e cogliere alcuni segreti. Non capisco bene se i post di Secrecy abbiano lo stesso valore.

Wanna take bets?
Il mio secondo punto l’ho introdotto perché nessuno può togliermi dalla testa che nel secondo volume si creerà un triangolo amoroso tra Liv, Henry e Grayson. La Gier non mi pare il tipo alla Tabitha Suzuma, che fa mettere insieme due fratelli di sangue, ma considerando che Grayson e Liv non sono fratelli di sangue nemmeno per una goccia, non ci sarebbe nemmeno un impedimento. Oltretutto questo tema dei fratelli è presente in molti romanzi: Clary e Jace sospettano di esserlo per tre libri buoni eppure pomiciano ugualmente; Miki e Yu di “Piccoli problemi di cuore” decidono di stare insieme anche se (pensano di essere) fratelli; Cercei e Jamie Lannister poi vi dicono qualcosa?
Quindi, a maggior ragione che qui i due non hanno nemmeno motivo di pensare di essere imparentati, non ci sarebbe affatto problema.
Non lo dico perché tifo per Grayson, lo dico perché ho interpretato alcuni segnali come un reciproco interesse da parte dei due (soprattutto da parte di lui, devo dire): lei che ogni tanto si incanta a guardarlo e si sorprende a commentare il suo bell’aspetto, lui che reagisce in modo strano quando la vede con Henry, lui che la guarda in modo strano, che dice e fa cose strane… non faccio spoiler, ma soprattutto quello che fa alla fine per Liv, che lei considera un gesto puramente fraterno, mi ha fatta esclamare “Fraterno un corno! Questo è cotto!”.
Una piccolissima parte di me ci spera, perché lui ha i capelli biondi e gli occhi castani e io AMO questa combinazione più di ogni altra, e poi lui le ha dato la sua felpa e io questa la considero una delle cose più carine che possano succedere. Una ragazza con la felpa di un ragazzo. Vomito arcobaleni.
Però Henry mi piace di più, anche se ha gli occhi grigi, e quindi sono Team Henry. Ma quanto volete scommettere che Liv finirà con Grayson? Accetto scommesse. E spero francamente di perdere, perché vincere non mi converrebbe.

Infine parlo brevemente del rapporto con la trilogia precedente: un lettore attento riconoscerà facilmente alcuni punti in comune (i topi, i ragni, l’incapacità di Liv di comprendere il latino, proponendo buffissime traduzioni maccheroniche, la gente dai nomi pomposi (lì avevamo James Pimplebottom, qui abbiamo Persefone Porter-Peregrin), l’ambientazione a Londra, la paura del sangue di Liv, ecc.) che non mi fanno sembrare il libro un déjà vu, anzi, li ho molto apprezzati.

Alcune frasi, devo ammettere, mi sono suonate un po’ strane in italiano, e non capisco se sia colpa della traduzione o cos’altro. Troppi “a me mi”, “a noi ci”, “a voi vi”.

Infine: l’idea principale è davvero intrigante e non vedo l’ora di saperne di più; non so dove la trama voglia andare a sfociare e questo è un gran punto a favore; non mi aspettavo che finisse come è finita e questo è un altro grosso punto a favore; per concludere: per adesso la Gier non ha superato se stessa, continuo a preferire la trilogia precedente. Ma non si sa mai che ci sorprenda con il seguito, che uscirà (non in Italia) il 26 giugno. Aspetto con impazienza di leggerlo.

Se siete rimasti con me fin proprio alla fine.
Detto questo, mi complimento per quanti sono riusciti a resistere fino a alla fine, perché ho scritto davvero tantissimo. Giusto la volta scorsa mi sentivo fiera di essere riuscita a recensire “Estasi culinarie” senza superare le due pagine di Word, e qui sono già a cinque. E se penso che ho anche dovuto ridimensionare quello che volevo dire, mi viene mal di testa solo a pensare quanto avrei potuto scrivere.
A presto, spero, quindi, con un altro post! Fatemi sapere cosa pensate di questo romanzo, se lo avete letto, o se vi ho incuriositi a leggere qualcosa della Gier, nel caso in cui non lo abbiate fatto!
Smack,

Andra

domenica 9 febbraio 2014

Recensione #2: Estasi culinarie di Muriel Barbery

Buongiorno, lettori!

Ho passato gli ultimi giorni a pubblicizzare il blog, cosa che mi ha portato via molto tempo, non tanto perché sia così difficile quanto perché io sono molto incapace quando si tratta di uscire dall’universo di Facebook. Insomma, il resto del web non è così immediato da comprendere per me (e con “il resto del web” intendo “gli altri social network”, i vari Twitter, Pinterest, LinkedIn e roba varia che per me costituiscono un mistero della fede). Ad ogni modo adesso trovate la pagina di Facebook più o meno aggiornata (qui) e anche una pagina su Pinterest (qui: è stato l’unico altro social network che ho più o meno compreso).

Copertina della mia edizione.
Adesso invece, giusto perché sto mangiando un cornetto appena sfornato ( = ho messo un cornetto da supermercato dentro al forno e adesso faccio finta che sia un croissant francese appena fatto) ho deciso di recensire il libro che ho appena finito, “Estasi culinarie” di Muriel Barbery. Alla faccia del fatto che sulla sinistra, nel blog, trovate scritto che sto leggendo “Il visconte di Bragelonne”, in realtà ultimamente ho letto il libro che sto per recensire. Ciò non vuol dire che io non stia leggendo Dumas. Ma Dumas ha più di mille pagine, la Barbery ne ha centoquarantadue (oggi mi è presa la mania di scrivere i numeri in lettere, chiedo perdono) quindi capite quanto mi sia venuto semplice leggere “Estasi culinarie” in qualche ora, lasciando un attimo da parte il caro Visconte.

Faccio una premessa: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery è nella santa trinità dei miei romanzi preferiti. Conosco gente che lo ha letto ed è rimasta del tutto indifferente. Voi direte, come di solito dico io, “Be’, de gustibus non disputandum est”. E avete sicuramente ragione. Ma le persone che amano la filosofia e la lingua che parlano non possono rimanere indifferenti di fronte a cotanta perfezione. Perché quel romanzo è la Perfezione. È scritto in un modo così impeccabile che mi commuove (lasciamo perdere i “sé stesso” che non mi garbano perché sono una fan del “se stesso”, senza accento, perché non sono colpa della Barbery) e lo stile, così sottilmente ironico nelle parti di Renée, così pungente in quelle di Paloma, ah! niente, mi fa venire la pelle d’oca.

Detto questo, ovviamente sono partita con le aspettative talmente alte che superavano le stelle, arrivavano proprio in una galassia lontana, lontana, dove stanno girando il sequel/prequel di “Star Wars”. A maggior ragione perché mi è stato consigliato da un amico del cui giudizio mi fido come del mio (che, a differenza degli altri stolti bifolchi (alla faccia del “de gustibus”), aveva apprezzato “L’eleganza del riccio”), cosa rara per me, che di solito non mi trovo molto d’accordo con la maggior parte dei coetanei.

Le aspettative non sono state deluse. Sebbene il libro sia antecedente rispetto alla già citata Eleganza, e abbastanza lontano nel genere, è scritto in maniera altrettanto sublime. Non è stato come per i libri di Zafón, che la Mondadori ha pubblicato in ordine inverso rispetto alla pubblicazione originale, in maniera davvero poco furba. Leggere quei libri in quell’ordine è stato come assistere a un’involuzione dell’autore, quando invece, se fossero stati letti nell’ordine giusto, avremmo potuto apprezzarne l’evoluzione. E poi esce l’ultimo volume, “Il prigioniero del cielo”, l’ultimo pubblicato anche in Spagna, e il lettore si trova spaesato, lo stile sembra altalenante.

Giustamente il discorso è diverso perché i due libri della Barbery non sono i tanti di Zafón, ma il punto voleva essere che “Estasi culinarie” non è affatto inferiore a “L’eleganza del riccio” nello stile. Certamente è molto diverso, anche se un fil rouge li collega. Anzi, anche più di un filo.

Innanzitutto la molteplicità di narratori. Ne “L’eleganza del riccio” sono solo due, quello della portiera Renée, vera protagonista del romanzo, e quello della dodicenne Paloma. Qui, invece, il protagonista è il morente critico gastronomico Pierre Arthens, ma le sue parti si frappongono tra quelle di tutta una serie di personaggi diversi: la moglie, i figli, le amanti, gli amici, i conoscenti, la portinaia (sempre Renée, perché l’ambientazione di questo romanzo è la stessa di quello successivo), il barbone della strada, il gatto (ebbene sì, anche il gatto). Quasi tutti sono sue vittime, persone che sono state schiacciate, umiliate, denigrate e nullificate durante la loro vita dal grande critico, e che provano sentimenti che vanno dall’amore cieco all’odio più profondo nei suoi confronti. Grande critico che, in punto di morte, cerca di riportare alla mente un sapore perduto, un vero sapore, qualcosa di primordiale, qualcosa che conosceva quando era giovane, non un piatto prelibato, non una squisitezza da ristorante cinque stelle.

L’altro fil rouge è ovviamente, come ho accennato, l’ambientazione: il signorile palazzo di rue de Grenelle. Tutti i personaggi sono gli stessi che compaiono anche ne “L’eleganza del riccio”. La stessa morte di Arthens è descritta anche lì, anche se da tutt’altro punto di vista e ovviamente con meno enfasi.

La diversità sta nel modo in cui viene portata avanti la narrazione. I dialoghi sono quasi inesistenti, perché tutto ruota intorno alle descrizioni: descrizioni soprattutto di cibi da parte di Arthens, che si aggrappa a tutti i suoi ricordi tentando di afferrare l’inafferrabile, e descrizioni di Arthens da parte di tutti gli altri. Sono descrizioni talmente ben strutturate, talmente ben fatte, talmente ricche ed eleganti e vere che ieri, quando ho finito di leggere il libro, all’ora di pranzo, ho assaporato la mia pasta con la salsa di pomodoro e le mie fettine di salame alle erbette come se fossero stati gli ultimi cibi della mia vita. Anche poco fa, mentre mordevo il mio croissant, nella mia mente lo descrivevo nello stesso modo in cui Arthens descrive i suoi cibi. Mordere quel croissant confezionato è stata un’esperienza mistica.

L’altra enorme differenza sta nella filosofia, che era una colonna portante de “L’eleganza del riccio” e che invece qui manca. Come manca una vera e propria trama. Non c’è azione, quindi non può esserci una trama. E va benissimo così, perché una trama avrebbe distratto dal vero protagonista, che ai miei occhi è più il cibo che Arthens.

In conclusione lo consiglio vivamente. Anche perché leggerlo non costa tempo né particolare impegno intellettuale. Si finisce in un paio d’ore e si rimane con una piacevole sensazione (e anche con tanta fame, vi avviso).

Detto questo, sono contenta di avere finalmente scritto un post che è più legato al fine originario del blog.


A presto!

Andra

domenica 2 febbraio 2014

Apologia della critica.

Eccomi tornata, presto come avevo promesso, con un altro post!
Ultimamente mi è capitato di dibattere con qualcuno su un argomento. La questione in sé non era nulla di che, ma ovviamente è stata estesa perché io, nel mio desiderio di apportare dei termini di paragone per spiegarmi meglio, sono andata a sfociare in altri ambiti. Sostanzialmente siamo arrivati a parlare della critica, sebbene questo termine non sia mai stato impiegato durante la conversazione.
Il mio interlocutore sosteneva che bisogna saper apprezzare il pensiero che sta dietro ogni azione. Quindi, in sostanza, niente e nessuno è criticabile.
Io, invece, che ritengo che la critica sia un ottimo modo perché l’oggetto della critica stessa possa migliorarsi, ritengo che, per quanto faccia male, sia necessario esprimere la propria opinione con sincerità.
Con sincerità non vuol dire brutalmente. E criticare non vuol dire insultare, per quanto molta gente sia convinta di sì, e mi dispiace moltissimo. “Critica” è un termine neutro. Per questo si parla di “critica negativa” e di “critica positiva”. Anche quella positiva aiuta a migliorarsi, perché indica quali sono i punti di forza dell’oggetto in questione. Ad esempio: se in uno spettacolo di danza in cui i ballerini si esibiscono in coppia, due vengono lodati per la loro bravura nelle alzate, il coreografo cosa penserà? Che bisogna puntare su quello.

A proposito di questo in una puntata della terza stagione dello show americano “So you think you can dance” c’è stata un’esibizione meravigliosa sulle note di “The charmain’s waltz”, dal film “Memorie di una Geisha”. E’ stata eseguita dai ballerini Hok e Jamie, mentre la coreografia era del pluripremiato genio Wade Robson. Il concetto del pezzo vedeva in Hok un colibrì e in Jamie il fiore di cui lui era innamorato. Alla fine della commovente ed esteticamente impeccabile coreografia, i giudici hanno apprezzato la capacità del coreografo di aver saputo puntare sui punti di forza dei singoli ballerini: il basso baricentro di Hok, e le linee sinuose di Jamie. Spesso era stata criticata l’incapacità di Hok di essere sinuoso (da ballerino di break dance qual’era), mentre Jamie era sempre stata lodata per le sue linee armoniose. Da queste critiche era chiaro su che cosa bisognava puntare per ottenere un’esibizione di un certo effetto e mettere in luce i ballerini. Non per nulla il pezzo ha vinto un Emmy, quell’anno.
Il pezzo sarebbe questo:

Per farvi capire invece perché, a mio parere, l’intenzione non è sufficiente a ottenere un giudizio positivo, vi parlo sempre dello stesso show. Nella quarta stagione il coreografo Jean Marc Généreux e sua moglie hanno creato per i ballerini Kerington e Twitch un pezzo sulle note di “A new day has come” di Céline Dion. Jean Marc (scusatemi se chiamo i coreografi per nome invece che per cognome come sarebbe più educato, ma guardo lo show da così tanto tempo che ormai mi sono affezionata) ha voluto affidare un significato a questo pezzo, come altri coreografi in passato avevano fatto. In particolare si è ispirato alla storia della figlia, una bambina che, colpita da una gravissima malattia, non può più muoversi. Le uniche volte in cui sembra riscuotersi, anche solo un pochino, sono quelle in cui guarda il programma in televisione. I movimenti dei ballerini le piacciono. Così ha creato quel pezzo per lei. Kerington è una sorta di angelo, e il significato del pezzo è assegnato ai versi stessi della canzone. Si parla di un nuovo giorno, di un miracolo.
Nel caso voleste guardarlo e farvi un’idea, eccolo:

Ora: due giudici su tre sono stati positivamente impressionati. Io stessa avevo apprezzato moltissimo l’esibizione. Ma il terzo giudice, la grande, grandissima coreografa Mia Michaels, la cui opinione è tenuta in considerazione più di quella di chiunque altro, non lo ha per nulla gradito.
Ovviamente è facile criticarla. Una persona come l’interlocutore a cui mi sono ispirata per scrivere questo post direbbe: “Ma lui ci ha messo se stesso in quel pezzo”.
Io invece penso che se guardassimo sempre l’intenzione che sta dietro ogni cosa, per la maggior parte delle volte dovremmo apprezzare tutto, anche le cose davvero inguardabili (nel caso della danza. Illeggibili nel caso della scrittura, inconcepibili nel caso di un’idea, immangiabili nel caso di un piatto, ecc.). Ma quando arriva il momento di giudicare, non possiamo pensare solo a cosa abbia dovuto passare quella persona per realizzare quella certa cosa.
E’ come a scuola. I professori non ci giudicano di certo in base a quanto abbiamo studiato. Ci giudicano in base alla prestazione, e ringrazio il cielo per questo. Io non sono mai stata il tipo che al liceo studiava dalla tre del pomeriggio alle 11 della sera, se non quando costretta da un carico di lavoro immane, come all’ultimo anno. C’erano miei compagni di classe che spendevano molto più tempo a studiare di quanto non facessi io. Eppure io rendevo meglio, magari perché mi serviva meno tempo per memorizzare certe nozioni. In effetti sono in tipo di persona che ricorda bene le cose dette in classe, per cui a casa non deve fare poi molto se non rispolverarle.
Di certo i professori non possono mettere 10 a chi studia otto ore e 4 a chi ne studia la metà. Perché non sempre il quantitativo di studio corrisponde all’effettiva preparazione.
Così è quindi anche per chi deve effettuare una critica. Non si può pensare “Poverino, gli piace tanto ballare, non posso dirgli che non sa farlo, meglio dirgli che è bravissimo e che deve continuare così”. Perché così si incoraggia una persona che in questo modo non ha la possibilità di scoprire il suo vero talento, una persona che andrà avanti a via di convinzione, che aprirà una scuola di danza e insegnerà quello che fa anche ad altri. Per andare con un esempio della stessa serie, vi presento lui, un tipo che si è presentato alle audizioni di So you think you can dance più volte di quante non riesca a contare, con il nome di "Sex", e che è convinto di essere un fenomeno della danza, e che siano i giudici a non capire il suo talento.

Attenzione, io non dico affatto che se una cosa piace ma non si è bravi nel farla, non bisogna farla. Ma se a me piace cantare eppure ferisco l’udito degli esseri viventi esibendomi, non c’è bisogno che vada a fare provini per i talent show. È ovvio che lì mi diranno che è meglio tornare a cantare sotto la doccia. Se a me piace la danza classica ma sono nata con due piedi sinistri e non riesco ad alzare la gamba nemmeno a 45°, forse è meglio che non mi faccia del male provando a esibirmi in pubblico. Posso anche andare a scuola di danza per il piacere di farlo, senza partecipare alle esibizioni. Posso ballare tutto quello che voglio finché non pretendo di andare a vincere una competizione a livello nazionale, perché è ovvio che non sono in grado.
Quindi approvo la critica, positiva o negativa che sia, la approvo e la pratico. Ma disdegno totalmente programmi come Materchef Italia o USA, che nella critica spietata che fanno non presentano nessun elemento costruttivo. Non trovo che nella denigrazione più umiliante ci sia del positivo. Per questo invece adoro alla follia Masterchef Australia, dove i giudici sono sempre educati, e sanno essere severi senza diventare volgari e sboccati all’ennesima potenza.
Quindi critica sì, anche severa, ma assolutamente non denigrazione, soprattutto non della persona, niente violenza psicologica o volgarità di sorta.
Detto questo, un saluto a tutti!
Smack,

Andra

Alla scoperta della Romania #2: Festività invernali

Salve a tutti!
Ritorno dopo un silenzio stampa durato anche troppo a causa degli esami universitari, e ritorno con qualche cambiamento.
Innanzitutto ho modificato la grafica del blog. Non è proprio quello che avrei voluto, ma sono contenta anche solo di essere riuscita a cambiarla senza sconvolgere tutto e senza fare esplodere il computer.
L’altra novità è che sulla destra trovate il link per poter leggere la mia fan fiction sul telefilm Glee, pubblicata su Efp. In un primo momento avevo anche pensato di postarla qui, ma visto che la trovate lì mi sembrava uno spreco di spazio. Al momento la fan fiction è in pausa, dovrei continuare a pubblicare in un mesetto.
Dopo questa piccola introduzione partiamo con il post del giorno, che vuole essere un recap di quello che avrei dovuto scrivere prima di Natale. Infatti, come avevo precedentemente detto, volevo parlare di piccole curiosità che riguardano la Romania, e in realtà non ho più avuto modo di farlo.
Quindi, anche se siamo a febbraio, voglio parlare un attimo del Natale e di un’altra festività che c’è in Romania il 6 dicembre.
San Nicola e i bambini.
Il 6 dicembre infatti è “Sfântul Nicolae”, ovvero “San Nicola”. È una sorta di corrispondente della Befana, perché porta dolci ai bambini buoni. Le leggende sul Santo sono molte, anche se le notizie biografiche sono poche e comunque tarde. Nato all’inizio del primo millennio in qualche luogo dell’attuale Turchia e persi i genitori, ricchi cristiani del luogo, si è poi dedicato alla cura di poveri, malati e bisognosi. Leggenda vuole che abbia aiutato tre povere sorelle che dovevano sposarsi ma erano senza dote, o ancora che abbia riportato in vita tre giovani uccisi dall’oste presso cui si erano fermati. Ad ogni modo oggigiorno è una figura legata soprattutto al mondo dei bambini. La sera del 5 dicembre questi mettono le scarpe sul davanzale della finestra, e la mattina dopo le trovano piene di dolci. In cambio loro lasciano carote e acqua per i cavalli che trainano la sua carrozza. Il Santo viene chiamato da tutti “Moș Nicolae”, che mi sento di tradurre come “Babbo Nicola”. Nella fisionomia è molto simile a Babbo Natale, e nelle leggende in cui si narra dei doni che era solito portare lo si ritrae appunto come un vecchio dalla barba bianca che scende attraverso il camino delle case e lascia i regali in calze appese al caminetto.
Personalmente amavo questa festa così come tutto il periodo invernale, ma la parte migliore arrivava con il Natale.
“Natale” in rumeno si dice “Crăciun”, ma vi risparmio le teorie sull’origine del termine perché non voglio annoiarvi con questioni linguistiche. Si festeggia il 25 dicembre proprio come per i cattolici.
Come ormai ovunque, anche in Romania c’è la tradizione dell’albero di Natale. Sono molto più diffusi gli alberi veri piuttosto che quelli di plastica, e risparmiatemi la morale sul “tagliare gli alberi fa male al pianeta” perché non mi pare che la plastica gli faccia bene. Gli alberi di Natale veri non sono di un verde brillante e rigoglioso come quelli finti, ma li trovo in qualche modo molto più belli. Oltretutto bisogna ingegnarsi molto di più per riempire gli spazi vuoti, e questo può rappresentare solo un divertimento quando lo si decora. Le decorazioni sono quelle classiche, ma si usa tantissimo appendere anche caramelle. Non ricordo di avere mai mangiato le caramelle per l’albero di Natale in altri periodi dell’anno, quindi suppongo che le usiamo solo per quello. Sono avvolte in carta colorata e lucida, e se ve lo chiedeste non ricordo assolutamente che sapore abbiano, il che è davvero molto triste.
Nell’intero periodo natalizio si usa andare di casa in casa a cantare canti natalizi (in rumeno “colinde”). Per chi canta un tempo c’erano dolci o frutta, ma è chiaro che siamo diventati tutti capitalisti e adesso si devono dare soldi, il che è un attimino contrario allo spirito della festa, ma ahimè, pazienza. Tra tutti i canti di Natale, il mio preferito si intitola “Nunta din Cana Galilei”, ovvero “Le nozze di Cana”. Vi si narra la nota vicenda evangelica, ovviamente. Nel caso foste curiosi di ascoltarla, è quella qui sotto.

Per quanto riguarda le vivande, partiamo dal presupposto che gli ortodossi rispettano il digiuno nei 40 giorni prima del Natale. Noi nuove generazioni non siamo così coscienziose o religiose e non è comune che lo facciamo, ma dai nostri genitori andando sempre più indietro questa è una tradizione rispettata. Il digiuno è un’usanza piuttosto comune anche nel resto dell’anno, nel senso che sono abbastanza le persone che lo rispettano ogni venerdì, e certe volte anche il mercoledì. Durante questi giorni non si consumano né carne (e il pesce è considerato carne), né i suoi derivati (uova, latte, ecc.).
Cozonac
Dopo la messa di Natale, la sera, il digiuno finisce e si può banchettare. I piatti tipici sono tanti, ma mi sento di parlare del panettone tradizionale perché è quello che mi sta più a cuore. A me non piace il panettone italiano, e non riesco a capire se sia perché sa di alcol come tutti i prodotti confezionati, o perché collego al Natale solo il panettone rumeno. In effetti se penso al panettone come un dolce normale, in fin dei conti non lo trovo malvagio. Ma quello rumeno, chiamato “cozonac”, di solito si suole fare in casa. Esistono panifici e pasticcerie che li preparano e li vendono per quanti non hanno tempo e voglia di farlo, ma sfido io di trovare una casa in cui almeno una nonna non lo sappia preparare. Persino io lo so preparare. Mentre il panettone italiano ha una forma circolare, quello rumeno è un po’ come un tronchetto, allungato. I gusti non sono così vari come quelli del panettone italiano: può essere fatto con noci e cacao oppure con “rahat”, ovvero lokum.
Sorcova
Anche da noi Babbo Natale porta i regali ai bambini dopo avere ricevuto la letterina, e li lascia sotto l’albero.
Quando arriva Capodanno arriva anche un altro tipo di abitudine, chiamato “Sorcova”. Per augurare buon anno si va di casa in casa portando in mano un rametto appena fiorito oppure, più comunemente, un bastoncino decorato di fiori di carta, e si canta una canzoncina tipica che augura felicità e prosperità per il nuovo anno, solo dopo avere chiesto ai padroni di casa “Primiţi sorcova?”, che più o meno vuol dire “Accettate gli auguri?”.
Con questa descrizione delle festività invernali in Romania, vi lascio, e a prestissimo con il prossimo post.
E questa volta sarà prestissimo davvero, perché il prossimo post è già pronto per essere pubblicato.

Smack!

Andra