mercoledì 18 giugno 2014

Salve a tutti i miei lettori!
Torno oggi con una recensione che mi sta particolarmente a cuore. Chi mi conosce di persona, probabilmente saprà che relativamente di recente mia madre ha pubblicato quello che è il primo romanzo, si spera, di una lunga serie. Con ciò non voglio dire che è il primo capitolo di una saga, attenzione. È solo un augurio: mi auguro che pubblichi nuovamente, in futuro, e che realizzi il suo sogno di diventare una scrittrice affermata.

Il fatto che il romanzo recensito lo abbia scritto mia madre probabilmente porterà alcuni di voi a pensare che io sia di parte. Ma nascondere la verità non avrebbe avuto senso. Chi mi conosce e legge anche il mio blog avrebbe saputo la verità. Non avrebbe avuto senso fare finta di niente.

Ad ogni modo il dubbio sulla veridicità delle opinioni è lecito, ma, se leggerete la recensione, vedrete che non ho risparmiato le mie opinioni, positive e negative, nemmeno a mia madre. Ehi, i miei lettori hanno il diritto di sapere cosa aspettarsi dalla lettura del romanzo.
Oltretutto, cari lettori, avere la figlia di una scrittrice che vi parla del romanzo è come avere la voce della scrittrice senza doverla intervistare.

Mughetto di bosco.
“Profumo di mughetto” ha una struttura molto particolare, perché presenta tre diverse storie una dentro l’altra, riprendendo un po’ lo stile de “Le mille e una notte”. Limitare il paragone a quest’altro “romanzo”, tuttavia, è riduttivo. Questo perché le storie de “Le mille e una notte” hanno tutte lo stesso stile. In questo romanzo, invece, le tre trame si collocano in stili narrativi diversi: il romanzo cornice è un classico romanzo scritto in terza persona dal punto di vista dei suoi protagonisti; il romanzo al suo interno è un romanzo confessione con due voci narranti (e anche tra di loro presentano delle differenze, ma ci arriveremo dopo); dentro il romanzo epistolare, infine, c’è una fiaba che rispetta lo stile classico.

A questo punto vi introduco un po’ la trama, per quanto mi sia possibile senza fare spoiler: la storia cornice è una storia d’amore anticonvenzionale (anticonvenzionale per me che rifletto ancora con il cervello di duecento anni fa; se pensiamo alla modernità, non è poi tanto strana) tra uno scrittore di successo, David (attenzione alla pronuncia! È “Davìd”, non “Dàvid” e nemmeno “Dèvid”), e una ragazza di diciassette anni, Adelina (con tutto il rispetto, fa bene a non amare il suo stesso nome, non l’avrei fatto nemmeno io se mi fossi chiamata come una delle due oche de “Gli aristogatti”). Il romanzo epistolare è un’opera di David, ed è dedicato ad Adelina. Rappresenta una metafora del loro amore impossibile. Per esprimere questa impossibilità, la vicenda narra di una coppia sposata che tenta, senza successo, di avere un figlio. L’unica possibilità rimasta è quella del cosiddetto “utero in affitto”: Victor, il marito, avrà il figlio con una giovane ragazza che si propone per “il lavoro”, della quale si innamorerà, ricambiato. La fiaba, invece, è scritta dalla madre del bambino, di cui non viene fatto il nome, al figlio Thomas, ed è una fiaba che, per quanto classica, ha un finale sorprendente.

Il romanzo in sé secondo me è un ottimo test per quantificare la propria maturità. Sono riuscita a individuare, infatti, tre livelli diversi di comprensione:
1. L’ho letto e l’ho capito.
2. L’ho letto, l’ho capito e ammetto che sia realistico.
3. L’ho letto, l’ho capito, ammetto che sia realistico e mi sta bene così.
Vi dirò subito la verità per quanto mi riguarda: non ho raggiunto ancora l’ultimo livello. Se dovesse capitare anche a voi di non raggiungere immediatamente il terzo punto, non scoraggiatevi. Intanto perché anche il solo “L’ho letto” accontenterebbe la scrittrice. E poi perché io stessa sono partita da quello stesso livello. La prima volta che l’ho letto, anni fa, quando era ancora un work in progress, sono rimasta sconcertata. Il realismo della narrazione strideva in maniera aggressiva con il mondo idealizzato da film musical che avevo nella mia testa. Man mano che il tempo è passato io ho acquisito nuove esperienze, che mi hanno permesso di superare i primi due livelli di comprensione. Per quanto riguarda il terzo punto, invece, sono ancora in fase di negazione.

Parliamo invece un attimo del titolo, perché dalla trama che ho raccontato non emerge il suo significato, che invece ha molta importanza all’interno del testo: il mughetto, per chi non lo sapesse, è uno dei fiori più belli che esistano al mondo (non vi è concesso pensarla diversamente da me). In rumeno, che è la mia prima lingua, si chiama “lăcrămioară”, ovvero “piccola lacrima”, e ditemi voi se non è una delle denominazioni più poetiche che abbiate mai sentito per un fiore (in inglese si chiama “Lily of the valley”, nome altrettanto figo).
Ad ogni modo il profumo di mughetto che dà il titolo al romanzo è il profumo che David sente in compagnia di Adelina. Non si tratta di un profumo reale, ma di una associazione che la mente di David fa involontariamente, tra questa giovane ragazza e questo splendido, splendido fiore. È un leimotiv del romanzo cornice ed è un elemento molto importante per capire il personaggio di Adelina, che a mio avviso è la vera protagonista non solo del romanzo cornice, ma anche delle altre due storie, in cui ovviamente non compare come se stessa, ma come altri due personaggi femminili che non sono altro che volti diversi della stessa persona.
Ad ogni modo: nel linguaggio dei fiori il mughetto rappresenta innocenza, purezza e verginità. Tutte qualità che Adelina e le sue due emanazioni rappresentano. Attenzione, con “verginità” non mi riferisco solo alla condizione biologica di ragazza che non ha ancora avuto rapporti sessuali. Si tratta piuttosto di una dimensione spirituale.

Francamente devo dire che inizialmente Adelina non mi piaceva. Preferisco i sue due alter-ego anche adesso, pur avendo iniziato ad apprezzare Adelina con il tempo e con l’andare avanti della storia. Nelle prime pagine faceva troppo la Lolita per i miei gusti, e spesso e volentieri le avrei dato uno schiaffo per questo. È una di quelle ragazze che si fanno chiamare “bimba”, “piccola” o “principessa” e che le ragazze come me guardano così:

Però, andando avanti, scoprendo la sua storia di vita, comprendendo il suo sentimento, vedendola crescere come personaggio, sono riuscita ad apprezzarla.

Non è un segreto per mia madre che io odi David, invece, e che gli auguravo solo di andare a sbattere con la macchina contro un albero. Se c’è una tipologia di personaggi che odio sono quelli indecisi e senza spina dorsale a cui invece piove tutto dal cielo, mentre c’è gente con una personalità dominante che deve spaccarsi in quattro per ottenere un quarto della stessa fortuna. David e il suo corrispettivo nel romanzo epistolare, Victor, sono quel tipo di persone. Uomini per modo di dire che, se non avessero mogli e amanti capaci di pensare per due, vagherebbero senza meta in balìa al vento. Al contrario di Adelina, non è bastato un romanzo intero a farmi piacere il personaggio di David. È lei a dare inizio alla relazione ed è lei a decidere come debba andare alla fine. Lui si rassegna a entrambe le cose. Oltretutto è quel tipo di uomo che fa questo tipo di discorsi: “In fondo che male c’era nel sentirsi attratto da una bella ragazza, molto giovane e fresca? Non sarebbe stata la prima volta che tradiva sua moglie e, anche se non aveva mai provato dei sentimenti veri o comunque forti per le altre donne, neanche questa volta la situazione poteva andare storta. Era un flirt, che avrebbe avuto una fine, come tutte le storielle che ti danno la spinta giusta facendoti sentire desiderato, affascinante, virile.”
Okay, è ingiusto da parte mia scegliere proprio questa citazione per caratterizzare David, perché vi sto costringendo a vederlo dal mio punto di vista. Ma non posso farci nulla. Lui è un personaggio debole e io odio i personaggi deboli. Avrà anche i suoi quarant’anni, ma la diciassettenne Adelina ha un carattere esponenzialmente più forte del suo. Il momento in cui arriva proprio al culmine del cattivo gusto è quando si porta un’amante (un’ennesima amante) in camera, ovviamente non per fare semplice conversazione, quando Adelina è nella stanza accanto. Devo dire che lei in questa occasione ha reagito da gran signora. Lui si sarebbe meritato uno sputo in un occhio.

Vladimir, il migliore amico di David, è il terzo importante fulcro della narrazione. Ad un certo punto il punto di vista passa da quello di David al suo, in maniera però quasi del tutto impercettibile. Essendo il romanzo scritto in terza persona, è molto facile giocare con i punti di vista. Devo dire che mia madre se l’è giocata bene. Affidare il racconto a una terza persona, esterna rispetto alla coppia di innamorati, è una cosa molto giapponese, e può essere un’arma a doppio taglio. Ma la carta è stata ben giocata. Principalmente perché Vladimir è uno schianto di personaggio. Ora questo sì che è un uomo con i fiocchi, gente. Se tutto il romanzo fosse stato dal suo punto di vista io avrei ballato la macarena.
Vladimir è affascinante, spiritoso, colto, ironico, pieno di sé in quel modo figo che fa cadere le donne ai suoi piedi, sempre il centro dell’attenzione, frizzante, consapevole, lungimirante. Non è un uomo che ha sempre ottenuto tutto dalla vita senza sforzo, come invece David, soprattutto non in amore, considerando che Carola, la donna di cui più o meno in segreto è sempre stato innamorato, è l’attuale moglie di David (vai a capire perché, santo cielo. Ecco perché dico che non sono arrivata all’ultimo stadio della comprensione).
Non sto qui a parlarvi dei personaggi del romanzo epistolare perché non sono altro che alter-ego degli stessi che troviamo qui, con qualche differenza. Victor è un po’ meno molluschesco di David e la donna di cui si innamora, innominata, è un po’ più donna e un po’ più bambina di Adelina allo stesso tempo.

Copertina del libro.
Tra l’altro mi chiedo se Carola si sia mai resa conto che il romanzo scritto da suo marito era una storia autobiografica, in sostanza (dalla regia mi dicono di sì).
Vi premetto che tutte e tre le storie sono storie struggenti. Pongono i personaggi davanti a eventi e scelte così complessi dal punto di vista psicologico che non posso nemmeno biasimare l’andamento delle cose, anche quando avrei voluto che andassero diversamente. Il mio pensiero è riassunto benissimo da quello che Victor ad un certo punto dice: “Però credo di avergli insegnato a non giudicare con facilità le persone e le situazioni prima di porsi la domanda: io che cosa avrei fatto in questo caso? Dico “credo” perché mi rendo conto quanto difficile sia oggigiorno insegnare ai figli ciò che noi abbiamo appreso con l’esperienza. Ma forse è meglio così, lo è per loro”.

Sono curiosa di sapere, e per questo vorrei che quanti tra i miei lettori leggeranno il libro me lo facciano sapere, se le esperienza fatte sono state sufficienti per comprendere il romanzo. L’età non è tanto un impedimento. Ci sono sedicenni più maturi di certi trentenni (vedi Adelina, le cui esperienze di vita sono talmente intense che la maggior parte degli adulti può considerarsi più infantile di lei). Voglio solo sapere se vi è stato facile relazionarvi alla storia e se l’avete compresa. Perché l’approfondimento psicologico è così intenso da lasciare spiazzati, anche perché lo stile della scrittura si innalza in maniera direttamente proporzionale alla complessità del momento narrato.
Non intendo proseguire oltre perché rischierei di annoiarvi a morte o di arrivare a spoilerare, e considero lo spoiler punibile con la pena capitale. Oltretutto voglio che voi ci restiate secchi come me, per il finale. Per tutti i finali.
Vi saluto e ci sentiamo molto presto con le novità estive del mio blog, che sono davvero tante e spero possano interessare!
Smack,

Andra

mercoledì 2 aprile 2014

Aria di primavera e di cambiamenti!

Salve a tutti!

Ebbene ho deciso di cambiare piattaforma. Cose che una decide di fare un mercoledì mattina, sì.
Semplicemente con la piattaforma blogger non mi sentivo sufficientemente… come dire? Professionale? Non che io sia chissà quanto professionale, considerando che non capisco bene nemmeno dove il blog voglia andare a parare, but anyway.
Per quanto tumblr mi piaccia e abbia considerato di spostarmi definitivamente lì (perché comunque una pagina con il titolo del blog l’ho creata), il mio cervello non riesce a comprendere del tutto il funzionamento di quel meraviglioso sito che è diventato una droga per la popolazione giovanile (e non solo) mondiale. Il mio cervello non riesce a comprendere nemmeno WordPress, però ci sta provando. Insomma, sono giovane, no? Noi giovani non dovremmo essere figli della tecnologia? Okay, so che in passato (fino a mezzora fa) ho dimostrato che non è vero, e che noi giovini possiamo essere più impediti di certi ottantenni con la tecnologia, ma ho intenzione di rifarmi. Anche perché prima della laurea dovrei anche passare un esame di Abilità informatiche. Perciò, dopo qualche sbirciatina ai consigli del web sulle piattaforme gratuite per blog, sono approdata su WordPress.
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Non vi sembra professionale anche solo il nome? Cioè: WordPress. Word press. Sentite anche come suona: Uoordpresss. Pronunciatelo. Sì, sì, pronunciatelo, non sono matta. Ditemi voi se non sembra il titolo di un giornale. Se non sembra che io scriva per il “Wall street journal” o simili. Roba che neanche “Le monde”. Mi fa sentire una persona molto impegnata.
Non fraintendetemi: il blog esiste ancora su blogger. Siccome non mi fido granché della tecnologia, provvederò a mettere gli articoli su entrambe le piattaforme. Posterò prima qui, e poi, magari non subito, anche su blogger.
Altra novità è che ho deciso di mostrare la mia faccia al web. Cioè, più o meno. Poiché volevo che vedeste la faccia di colei che scrive i papiri che leggete, ho deciso di usare una mia personalissima foto come immagine del profilo. Quella che vedete adesso, tuttavia, è provvisoria. Questo perché volevo che mi vedeste come mi vede la gente ogni giorno quando mi incontra all’università o in biblioteca, carica di borse che stanno trasformando la mia un tempo diritta colonna vertebrale in una spirale che fa invidia al mio DNA, con gli occhialoni che pesano quanto il libro di arte giapponese (credetemi, è pesante) in bilico sulla punta del naso, l’aria di chi è arrivato di corsa. Provvederò, quindi, a rapire un amico e costringerlo a scattarmi una foto decente, perché purtroppo non sono stata dotata del talento di farmi selfies decenti (ennesima dimostrazione che non sono figlia di questo secolo). Magari la foto la farò senza le borse, eh. Ad ogni modo quella nella foto attuale sono comunque io. Nella mia sfolgorante bellezza di quest’estate, nella mia dimora.
No, scherzo. Ero in una cava a Modica (Sicilia, provincia di Ragusa, per chi non lo sapesse. Fanno il cioccolato).
Inoltre provvederò a inserire anche tutti i link degli altri siti su cui potete seguirmi: Facebook, Twitter, Pinterest, Tumblr e, se avrò la pazienza di farlo: Youtube. Non so perché mai dovreste volermi seguire su Youtube, però fa molto fighi avere un canale Youtube. Se solo penso che quindi dovrei mettermi a sistemare anche quello mi viene l’orticaria, but still. Ci proverò, prima o poi (= poi).
Per adesso vi saluto, anche perché ho il cervello spappolato dal lavoro al pc di una mattinata e mi serve che si ricomponga prima di passare allo studio.
A presterrimo. Non so ancora se avrò da comunicarvi altre novità o se tornerò con un regular. Per scoprirlo, stay tuned.

Smack!
Andra

P.S. Il nuovo link del blog è: www.thehiddentearoom.wordpress.com

domenica 23 marzo 2014

Per il prossimo che mi vorrà parlare male di Disney Channel.

Buona domenica a tutti i miei lettori. Oggi qui a Venezia ha piovuto (eh, che sorpresa!) e non so se essere contenta perché, se c’è cattivo tempo, non ho voglia di uscire e quindi posso stare a casa a studiare, oppure se, proprio perché c’è cattivo tempo, mi passa la voglia di fare qualunque cosa, incluso studiare.

Nel dubbio su cosa fare ho deciso di scrivere il post che preannunciavo la volta scorsa. Dicevo che è un tipo di post che non ho mai scritto perché tratta di un argomento che poco c’entra con quelli che ho sempre trattato. Ma oggi, su Facebook, ho trovato l’ennesima presa in giro alla Disney perché “i ragazzini che produce sono tutti cause perse”. Oltretutto il post era su Hilary Duff, di cui si diceva essere l’unica a salvarsi da questa severa categorizzazione, finché qualcuno non ha commentato “Soffriva di problemi alimentari, quindi anche lei è pazza”.

A questo punto mi sono scoppiate le coronarie.


Come diamine si fa a dare della pazza a una persona perché soffre di problemi alimentari? Cosa che, tra l’altro, non mi risulta, ma può anche darsi che sia io a non saperlo. Questa affermazione è sbagliata da tutti i punti di vista: 1) solo perché una ragazzina passa da “in carne” a “magra” non significa che sia diventata anoressica. Può anche semplicemente essere dimagrita. Oltretutto si parla sempre di come ad un certo punto lei fosse ingrassata molto. Be', era incinta, sfido io! 2) i disturbi alimentari sono per la maggior parte colpa degli altri, non della persona che ne soffre. Non avessi io una quantità di amor proprio veramente elevata, sarei diventata bulimica da tanto tempo, grazie ai commenti che ricevo ogni singolo giorno, per giunta da gente che non lo fa nemmeno con cattiveria, solo non si rende conto di quello che dice. Farmi notare “Ma non volevi dimagrire?” solo perché mi si vede mangiare un Twix per merenda, quando si sa benissimo che consumo quantità industriali di verdura e quasi non mangio carboidrati in altre occasioni, è cattiveria. Non fatelo mai, ve ne prego. A me poco può importare di quello che si pensa di quello che mangio o di quante volte vado in palestra. Ma c’è gente che ne soffre, che dopo una domanda come quelle che ricevo io va in bagno a rimettere tutto. 3) Da quando avere un disturbo alimentare equivale al drogarsi sul palco (Miley) o al postare foto di se stessi nudi su Twitter (Dylan Sprouse) o sputare sui fan (Bieber)?


I nomi di coloro che sono usciti dalla Disney e hanno preso brutte strade sono diversi: Britney Spears, Miley Cyrus, Dylan Sprouse (Zack di Zack e Cody, per intenderci), Lindsay Lohan. Mi volete dire che la Disney ha prodotto solo loro in tutti questi anni? Non so voi, ma io guardo Disney Channel da quando avevo 8 anni. Ho seguito ogni singola serie mai uscita sul canale, fino a circa un anno fa, quando, per mancanza di televisione qui a Venezia, ho smesso. Oltretutto i nuovi show non erano di qualità come i vecchi, per cui non ne sento nemmeno la mancanza (tranne per “Phineas e Ferb”, santo cartone!)

Ora: la gente tende a inserire Selena Gomez e Demi Lovato nella lista dei “rovinati” di cui sopra. Per la seconda posso capire il perché: Demi è stata in riabilitazione per problemi di bulimia, di depressione con conseguente taglio di vene e uso di droghe. Ora: bollare qualcuno come “rovinato” solo perché è depresso non mi pare il modo migliore di aiutarlo. Se lei fosse stata una che si droga sul palco, avrei potuto capire l’odio: stai influenzando negativamente il tuo giovane pubblico. Ma siccome noi non sapevamo nemmeno che si drogasse finché non è stata lei stessa a dirlo, non ha dato cattivi esempi a nessuno. Anzi, andando in riabilitazione e riprendendosi ha dato un esempio positivo, come a dire: “Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche altri”.

Selena Gomez in uno dei suoi viaggi in Africa.
Non sta né in cielo né in terra che Selena Gomez, invece, si trovi sulla lista nera. Questa ragazza non ha fatto passi falsi da quando è uscita dalla Disney. Certe volte leggo “Ma stava con Justin Bieber”. E quindi? Per questo è una delinquente? Non importa che sia ambasciatrice dell’UNICEF (come Angelina Jolie, d’altra parte) e che parta per missioni umanitarie in Africa? Non conta che faccia beneficienza? Non conta che gran parte della sua linea di moda sia dedicata all’abbigliamento per il fitness, spingendo così i giovani a dedicarvisi? Siccome stava con Justin Bieber (di cui altrettanto non importa che prima dello scatto di pazzia, nel 2012, fosse la seconda star di Hollywood che aveva fatto più beneficienza quell’anno dopo Lady Gaga, battendo persino quei due santi che sono Pitt e la Jolie) va considerata una pessima influenza. Bah.

A questo punto, però, quando tengo questa conversazione con qualcuno, si arriva al punto in cui mi si dice: “Beh, ma se non tutti, almeno la maggior parte di loro si è rovinata!”.
Gioia! Solo perché tu non conosci le decine e decine di star disneyane!
Al che comincio a fare nomi (e mi limito ai personaggi principali delle serie, non vado a pescarli tutti): Raven Symoné (di “Raven”, appunto, e di “Cheetah girls”); Ashley Tisdale (“High school musical” e “Zack e Cody al grand Hotel”); Ricky Ullman e Alyson Michalka (“Phil dal futuro”); Shia LaBeouf (“Even Stevens”); i Jonas Brothers (“Camp rock” e “JONAS”); Zac Efron e Vanessa Hudgens (“High school musical”); Cole Sprouse e Brenda Song (“Zack e Cody al grand hotel” e “Zack e Cody sul ponte di comando”); Emily Osment (“Hannah Montana”). Mi fermo qui perché altri sono ancora sotto contratto con la Disney, oppure lavorano per altri enti televisivi per ragazzi.

Shia Laboeuf in alcuni suoi film (da sinistra a destra:
Holes, Disturbia, Transformers, Indiana Jones)
E l’interlocutore di turno risponde: “Ma chi li conosce questi?”.
Chi li conosce questi? Chi li conosce questi?!
Chi non
conosce Raven?! Che ha fatto la storia su Disney Channel? O Ashley Tisdale, attrice, cantante e doppiatrice (di Candace in “Phineas e Ferb”, tra l’altro)? O Zac Efron, che nel 2006 è stato definito da Adam Shankman (anche se dubito che la gente conosca quel grand’uomo che è Shankman, qui in Italia) come “il ragazzo più popolare degli Stati Uniti”? Shia LaBeouf è il protagonista dei tre film di “Transformers”, perdinci! Per quanto tu possa essere una persona alternativa, almeno di “Transformers” avrai sentito parlare!

A quel punto l’interlocutore ribatte: “Però di loro non si parla più!”.
Al che io rimango basita per un attimo, perché la risposta cozza così tanto con quello di cui stavamo parlando che il mio cervello ci mette un paio di minuti per metabolizzarla. È come se io avessi detto “Penso che ci sia una possibilità di risanare il buco nell’ozono” e mi abbiano risposto “Mi piacciono le arance”. Ma poi mi riprendo, e dico: 1) solo perché tu non senti più parlare di loro, non vuol dire che non se ne parli; 2) ma allora scusami: se fanno notizia perché compiono atti osceni non va bene, ma se non fanno notizia e nel frattempo salvano il mondo (si fa per dire, eh, è solo un’iperbole) non va bene nemmeno? Cosa va bene, allora?
Il mio interlocutore risponde ribattendo quello che ha già detto. A questo punto io insisto un’altra volta, e poi smetto, perché andare avanti a riproporre le stessi tesi mi sembra un cattivo uso del mio tempo.


Ma per voi farò una piccola conclusione, riassumendo: le star della Disney - che io non chiamerei “bimbetti” o “ragazzini”, perché bimbetti e ragazzini non lo sono più, anzi, tranne quelli correntemente attivi sulla Disney sono tutti più grandi di me, e dal basso dei miei 20’anni non chiamerei i ventiduenni “bimbetti” – sono tante. Alcune sono cadute nell’oblio (qualcuno mi dia notizie di Ricky Ullman!) , alcune hanno cambiato strada (Cole Sprouse studia alla New York University e ha un sito di fotografia, essendo appassionato di questa attività; Hilary Duff, oltre a produrre due profumi in collaborazione con Elizabeth Arden e disegnare due linee d’abbigliamento, nel 2010 ha fatto uscire il primo romanzo della sua trilogia, di cui l’ultimo volume è uscito l’anno scorso) altri lavorano ancora occasionalmente per la Disney (Brenda Song dovrebbe partecipare al sequel di “Wendy Wu: guerriera alle prime armi”), ma di tutti loro sono solo cinque i nomi di coloro che hanno preso cattive strade (okay, vi concedo Demi), per cui fare di tutta l’erba un fascio mi sembra davvero biasimevole. Se qualcuno vuole intavolare una discussione al riguardo con me, mi faccia il favore di informarsi bene, almeno su Wikipedia. Una volta che l’avrà fatto, venga pure a prendere un tè con me.

Smack!

Andra

venerdì 21 marzo 2014

Confessioni scottanti ed elogio della virgola

Ero indecisa sul titolo da dare a questo post. Dopo tanto tempo passato su Youtube a seguire, appunto, Youtubers, mi rendo conto di come i titoli più accattivanti e improbabili siano quelli che attirano maggiormente l’attenzione, anche se spesso poco c’entrano davvero con il contenuto di ciò che si sta per vedere.

Nel mio caso ero indecisa se intitolare il post come ho effettivamente fatto, oppure se scegliere solo una delle due parti separate dalla congiunzione coordinante. Poiché io, mi fossi trovata davanti a due post con questi due titoli, avrei optato certamente per la lettura del secondo, mentre suppongo che “Confessioni scottanti” sia più attraente per la maggior parte dei lettori, mi sono detta “Massì, uniamoli e vediamo che succede”. The best of both worlds.

Comunque il post include entrambe le cose.

Inizierò con la confessione. Ultimamente mi capita sempre più spesso che qualcuno faccia riferimento a qualcosa che io non capisco ma che evidentemente l’interlocutore dà per scontato che io sappia. Allora si crea la seguente conversazione:
Interlocutore: Come, non sai questa cosa?
Io, ovviamente allibita: No, non ne sapevo nulla.
Interlocutore: L’ho pubblicata su Facebook l’altro giorno!
Io, con evidente alzata di sopracciglia: AH!
Quello che l’interlocutore non sa – e qui arriviamo alla confessione – è che quel mio “Ah” sta a significare: “Sapessi tu da quanto tempo ho cliccato il tastino “smetti di seguire” sulla tua pagina!”.

Magari non esageriamo, ma una Meryl Streep ci sta sempre bene.
Sì, lo ammetto. Nell’ultimo anno ho “smesso di seguire” una quantità enorme di miei amici facebookiani. Ogni giorno il numero di coloro che seguo diminuisce. Penso che in poco tempo arriverò a metà degli amici seguiti.
Le motivazioni per cui capita che compia questa azione sono molteplici:
1. La bacheca mi viene intasata di foto di ogni singolo momento della vita della persona in questione, dal “#risvegliotime” al “#buonanottefacebook”. E in mezzo a trecento post giornalieri si perde magari quell’unica foto che avrei trovato carina. Per queste cose esiste Instagram.
2. La bacheca mi viene intasata di post di pagine che trovo volgari e/o del tutto inopportune. Per questi non mi sento nemmeno in colpa quando smetto di essere seguace.
3. La bacheca mi viene intasata di post senza apparente senso. “I’m on the edge”. “Breaking dawn”. “Waiting”. Ora io o devo cogliere un potenziale tentativo di suicidio da parte di queste persone, considerato l’amore spropositato per le frasi più deprimenti di questo mondo, oppure devo pensare che sono studenti di filosofia un po’ tocchi, e smettere di seguire senza pormi troppe domane. Per le frasi così brevi, comunque, vi consiglio di passare a Twitter.
4. La bacheca mi viene intasa dei post più sgrammaticati di questo mondo, che per giunta spesso vogliono essere massime esistenziali degne dei migliori filosofi. Questo è precisamente il motivo più importante per cui smetto di seguire la gente. Perché io non posso rischiare un ictus ogni volta che leggo certe oscenità. Sembrano i flussi di coscienza di un analfabeta, altro che massime filosofiche. Proprio poco fa mi è capitato di leggere “Lui da una visione dì se”. C’erano due parole da accentare. Due. E tu ne accenti una terza? A questo punto io o mi metto a ridere per mezzora buona, o, visto che non posso pensare che siano tutti errori di battitura, smetto di seguire, perché se faccio notare l’errore passo per grammar nazi.


Soprattutto vedo come la gente abbia una certa difficoltà a utilizzare la punteggiatura. Innanzitutto vediamo bene di chiarire che punteggiatura e accenti sono due cose diverse. Un flusso di coscienza si scrive senza punteggiatura, ma non si scrive senza accenti o apostrofi. Quindi non posso nemmeno fare finta di pensare che la gente sia tutta amante di James Joyce. Chapeau per chi lo è. Non amo particolarmente il genere, ma insomma, de gustibus non disputandum est. Qui si parla di un uso della punteggiatura e degli accenti che nemmeno i futuristi o le avanguardie più all’avanguardia approverebbero. I punti sono seminati con la stessa cura con cui una vecchietta al parco butta le briciole per terra per gli uccellini. I punti esclamativi sono usati con frequenza tale che sembrano tutti in preda ad attacchi isterici. Le virgole invece non esistono. E qua veniamo alla seconda parte del mio titolo: le virgole.

Credo che solo mia mamma sappia quanto io ami la virgola. Almeno una volta a settimana devo tenere un discorsetto di circa venti minuti sull’amore profondo che nutro nei confronti della virgola. Ora, se mi seguite da quando ho iniziato a scrivere su questo blog, saprete che amo il romanzo “L’eleganza del riccio”, e che l’ho citato più volte e ho detto che, quando avrei parlato della virgola, lo avrei tirato in ballo. E infatti così faccio. Cito testualmente (integrando i miei commenti tra parentesi):
“Madame Michel,
potrebbe, ricevere i pacchi della tintoria questo pomeriggio? […]
Non mi aspettavo una simile ipocrisia dell’incipit
(ma la notate la genialità? L’ironia? Questo è scrivere!). Mi lascio cadere sulla sedia più vicina per lo shock. Mi chiedo, tra l’altro, se non sono un po’ pazza. Quando capita a voi, vi fa lo stesso effetto? (Sì, sì! Mi sale il sangue al cervello!)
Guardate:
Il gatto dorme.
La lettura di questa frase insignificante non ha risvegliato in voi nessun sentimento di dolore, nessun barlume di sofferenza? È legittimo.
Ora:
Il gatto, dorme.
Ripeto affinché non sussistano ambiguità:
Il gatto virgola dorme.
Il gatto, dorme.
Potrebbe, ricevere.
Da una parte abbiamo un uso prodigioso della virgola che, prendendosi delle libertà con la lingua, che di solito non l’ammette prima di una congiunzione coordinativa, ne esalta la forma:
“Mi hanno rimproverato non poco, e per la guerra, e per la pace…”
(La frase è tratta dal romanzo “Guerra e pace”, di cui la protagonista aveva parlato giusto un paio di pagine prima citando questa stessa frase)
E dall’altra abbiamo le sbrodolature su carta velina di Sabine Pallières che trafigge la frase con una virgola divenuta pugnale. (sante parole, santissime parole!)
“Potrebbe, ricevere i pacchi della tintoria?”

(E qua comincia la parte più bella e più giusta, perché contestualizza il tutto, fa capire perché c’è da farsi venire l’orticaria per cose come queste)

Se Sabine Pallières fosse stata una domestica portoghese nata sotto un fico di Faro, una portinaia recentemente emigrata da Puteaux, oppure una minorata mentale tollerata dalla sua caritatevole famiglia, avrei potuto perdonare di buon cuore questa colpevole trascuratezza. Ma Sabine Pallières è ricca. Sabine Pallières è la moglie di un pezzo grosso dell’industria bellica, Sabine Pallières è la madre di un cretino in montgomery verde bottiglia che, dopo due anni di preparazione per la Normale e dopo Scienze politiche, probabilmente andrà a diffondere la mediocrità delle sue ideucce in un gabinetto ministeriale di destra e, per di più, Sabine Pallières  è la figlia di una baldracca impellicciata (sentite, sentite qui!) che fa parte del comitato di lettura di una grandissima casa editrice ed è così bardata di gioielli che a volte mi aspetto che sprofondi.”

Dopo tutto questo l’unica cosa che posso commentare è : amen.


Non ci sarebbe qualcosa di particolare da aggiungere, perché ritengo che il testo spieghi il mio messaggio alla perfezione. Voglio solo chiarire un po’ meglio l’ultima parte: la nostra protagonista, semplice portinaia, non può giustificare la donna da cui riceve il biglietto per un errore come quello compiuto perché questa donna è una donna che ha ricevuto, come tutta la sua famiglia, la migliore istruzione possibile. Questo vale anche per le mie conoscenze facebookiane: sono andati a scuola, sono all’università, si ritengono grandi parlanti di italiano (uno in particolare si ritiene un paladino della lingua italiana, e vi giuro che uno dei suoi ultimi post non l’ho proprio capito. Sono stata a leggerlo e rileggerlo almeno dieci volte, cercando di piantare virgole qua e là per separare le parti delle frasi e dare un senso a quel coso insensato che non oso nemmeno chiamare “testo”, e non ci sono riuscita. E la cosa buffa è che, anche se dovesse mai leggere questo post, cosa che non credo assolutamente che farà, si chiederà chi sia mai la persona di cui sto parlando) e poi scrivono come se avessero saltato le elementari e le medie, e in alcuni casi anche il liceo, e si siano ritrovati a vagare per l’università per sbaglio. Non posso nemmeno giustificare un uso scorretto della punteggiatura da parte di chi, come dice Renée, è uno straniero appena arrivato, non se è un parlante di lingue che la punteggiatura la usano. Io ero una straniera appena arrivata, la bellezza di 11 anni fa, e la punteggiatura la usavo. E avevo 9 anni. Se io fossi stata una giapponese, possibilmente non avrei saputo usarla bene, perché in giapponese la punteggiatura è molto scarsa e molto diversa dalla nostra, oltre che non di uso così antico.

Due paroline anche su quella virgoletta in alto che è l’apostrofo. Volevo scrivere un altro post dedicato solo a lui, intitolato “L’apostrofo, questo sconosciuto”. Ma in sostanza non c’è poi così tanto da dire che occupi un intero post. Basta dire che: la lingua italiana offre la possibilità di decidere se usare l’apostrofo oppure no, nel senso che posso benissimo scrivere o dire “Un bicchiere di acqua” piuttosto che “Un bicchiere d’acqua”. Non suona altrettanto naturale, ma non è sbagliato. Ma se scelgo di non metterlo, devo scrivere la vocale che sarebbe caduta per apocope. Non posso scrivere “Un bicchiere d acqua”. Questo sì che è sbagliato. E lo fa così tanta gente che mi è venuto il dubbio che forse per alcuni l’apostrofo sia a pagamento. Non fosse che poi lo si usa in maniera impropria. “Un’uomo” lo scrivono, ma “d’acqua” no. Qualcuno mi spieghi la complessa logica dietro queste scelte. C’è una metafisica che non colgo?

I wonder...
Altro tema che ho citato più su, ma che non tocco adesso perché il mio post è già diventato un immenso papiro che mi sembra sufficientemente pungente così (sebbene i miei lettori possano sentirsi tranquillamente esclusi dalla categoria di scrittori di flussi di coscienza da analfabeti, quindi non mi preoccupo delle vostre reazioni. Non lo dico come captatio benevolentiae, ma perché so perfettamente chi legge il mio blog tra i miei conoscenti, e non sono gente come quella di cui ho parlato, per fortuna), sono gli accenti. Loro sì che sono sconosciuti. Per questi consiglierei solo un ripasso matto e disperatissimo.

Detto questo, passo e chiudo.

Il prossimo post, lo preannuncio, è un tipo di post che non ho mai scritto finora. Inoltre sto anche per cambiare la grafica del blog, anche se ormai dubito che ne esista una che mi possa piacere!

Stay tuned.
Smack!

Andra

mercoledì 19 marzo 2014

Alla scoperta della Romania #4: Mărţișor, la festa della primavera

Buongiorno a tutti!
Questa volta ho una buona scusa per il lungo silenzio stampa: mia mamma è venuta a trovarmi qui a Venezia. Siamo state costantemente fuori, tra Padova, Trieste e la stessa Venezia. Insomma, le camminate non ci sono mancate. Arrivavo a sera così stanca che per due giorni credo di essere andata a dormire alle 9.

Per cui è passato un po’ di tempo da quando avrei dovuto scrivere questo post. La festa rumena di cui vorrei parlarvi, infatti, in realtà è stata il primo di marzo.

Esempio di  mărţișor senza accessorio.
Chiamasi infatti “Mărţișor” (abbreviazione di "martie", che vuol dire appunto "marzo"), corrisponde grosso modo a quelle che a Roma erano le Idi di marzo. In sostanza è la festa della primavera. In questa occasione vengono regalati piccoli accessori caratterizzati per il fatto di essere decorati con due fili intrecciati, uno rosso e uno bianco. Spesso si usa anche regalare i bucaneve, i fiori che per antonomasia rappresentano l’arrivo della primavera.

Le leggende legate alla nascita della festività sono due: la prima è quella dell’Eroe che liberò il Sole. Si dice che il Sole sia sceso sulla terra e abbia acquistato le sembianze di una bellissima fanciulla. Ma un orco la rapì e la rinchiuse nel suo castello, facendo piombare il mondo nel buio e nella desolazione. Allora un giovane coraggioso, dopo un anno di ricerche, trovò l’orco, lo sfidò a duello e vinse, permettendo al Sole di tornare in cielo e splendere. La battaglia con l’orco tuttavia l’aveva lasciato stremato e sanguinante. Il suo sangue si sparse sulla neve bianca finché lui non esalò il suo ultimo respiro. La tradizione dei due fili, dunque, sarebbe un modo per ricordare il coraggio del giovane.

Esempio di mărţișor con accessorio.
La seconda leggenda invece è quella della lotta tra la Primavera e l’Inverno. È una leggenda diffusa più che altro nella Repubblica di Moldavia, ma è così carina che non vedo perché non esporvela ugualmente: si dice che un giorno la bellissima Primavera sia uscita in giardino e abbia visto, in mezzo a tante piante spinose, un unico bucaneve che sbucava (scusate il gioco di parole) da un cumulo di neve. Nel desiderio di proteggere il fiore la Primavera iniziò ad avvicinarsi e a strappare tutti i rovi che lo circondavano. Ma l’Inverno la vide, si infuriò, e inviò un gelo tale da congelare immediatamente il fiore. Tuttavia, la Primavera si punse un dito con i rovi, e una goccia di sangue caldo cadde sopra il bucaneve, facendolo rinvigorire. In questo modo l’Inverno fu sconfitto, e da qui deriverebbe l’usanza dei due fili.

Queste leggende, come tutte le leggende, non sono datate. La festa, presente anche in Bulgaria, potrebbe essere di derivazione daco-tracica (come dicevo nello scorso post, i Daci erano la popolazione autoctona, quella invasa da Traiano. Erano una delle popolazioni traciche, che abitavano la penisola balcanica). Se da un lato si è voluto far derivare la festa dall’antico capodanno romano, festeggiato nel mese di Marte, dall’altro gli scavi archeologici hanno riscontrato evidenze di oggetti simili a quelli che vengono oggi regalati anche nell’8000 a.C.

Bucaneve.
Oggi, il regalo che si riceve va indossato per tutto il mese di marzo, e dopo andrebbe appeso al ramo di un albero da frutta. Sono usanze che, ovviamente, si mantengono nelle campagne. Si dice che se, nell’appendere l’accessorio, si esprime un desiderio, questo si esaudirà.

È una festa che ho sempre trovato molto carina. Da bambina giravo per i negozi con mia nonna per trovare questi piccoli accessori (i negozi li vendono in quel periodo, già completi di filo bianco e rosso e a volte qualche frase di buon augurio) da regalare alle mie compagne di classe e alle amiche con cui andavo a giocare fuori, nel pomeriggio. Quel giorno ne ricevevo talmente tanti che ovviamente spesso non potevo indossarli tutti, ma li conservavo sempre.

Bene, anche questo post è finito. Spero che vi sia piaciuto, e spero di tornare molto presto con qualche altro scritto, magari stavolta su un argomento più in linea con il blog, dato che gli ultimi due sono stati rubriche sulla Romania.
Smack!

Andra

mercoledì 19 febbraio 2014

Recensione #3: Silver di Kerstin Gier

Salve a tutti!
Stranamente torno a scrivere con una nuova recensione, invece che con una rubrica o con qualche post random, come mi sarei aspettata di fare. E lo so che continuo a dover pubblicare il numero di “Books vs Movies” dedicato a “La ragazza di fuoco”, ma davvero non ne ho voglia. Non perché le mie impressioni siano negative, tutt’altro. Semplicemente non riesco a mettere insieme tutti i pensieri, quando si tratta della trilogia di “Hunger Games”.

Così sono qui a parlarvi di “Silver” di Kerstin Gier, primo romanzo di una nuova trilogia dell’autrice. Autrice di cui amo, anzi, più che amo, adoro, il precedente lavoro, “La trilogia delle gemme”, composta dai volumi “Red”, “Blue” e “Green” (opera precedente per noi che siamo in Italia. L’autrice, originariamente tedesca, ha pubblicato in realtà moltissimi romanzi di cui non abbiamo la traduzione, e questa è l’unica volta nella mia vita in cui rimpiango di non sapere il tedesco). Senza remore posso affermare che la “Trilogia delle gemme” sia la mia trilogia preferita in assoluto. Mescola un insieme di elementi per cui non riuscirei a classificare facilmente i suoi romanzi. Al massimo potrei dire che sono “Young adult”, anche se non so fino a che punto il libro si trovi comodo in questa classificazione. “Silver”, primo di quella che si chiama “Trilogia dei sogni”, appartiene comunque allo stesso genere. Un Urban Fantasy molto light, ironico, non particolarmente impegnato, con personaggi buffi e strampalati, niente cattivi dal tragico passato, niente protagonisti in piena crisi mistico-esistenziale a causa della loro nuova identità.

Per farvi capire quanto mi sia piaciuta, basta andare a ripescare la mia classifica dei dieci personaggi femminili migliori degli YA e osservare che la protagonista de “La trilogia delle gemme”, Gwendolyn, e la sua migliore amica Leslie, occupano rispettivamente il secondo e il terzo posto. Due personaggi della stessa storia nella top 3. (Qui il post, se volete dare un'occhiata)

Oltretutto, nella mia segretissima e nascostissima lista (sono una fanatica delle liste. Ne ho stilata persino una dei migliori complimenti e peggiori insulti che io abbia ricevuto/possa ricevere, e la gente che mi conosce sarebbe davvero sorpresa di sapere quante volte al giorno mi offende, secondo tale lista) dei personaggi maschili libreschi per i quali ho avuto una cotta spassionata, Gideon, co-protagonista di Gwendolyn, è indicato con due stelline e mezza (il massimo è tre, ma dopo le tre stelline c’è il cuore, al primissimo posto) che stanno a significare “personaggio su cui mi sono fatta decisamente troppi filmini mentali”.
Inoltre, la già citata Leslie comparirà anche in un altro numero della rubrica “Besties”, che pubblicherò spero non tra molto.

Dopo queste dovute premesse, passiamo a “Silver”. Ovvio che io sia partita con aspettative che superavano la GRB 090423, ovvero la stella più lontana dalla Terra che sia mai stata avvistata (la sua esplosione risale a 13 miliardi di anni fa, non troppo tempo dopo il Big Bang). D’altro canto, però, una naturale sfiducia nella capacità di autori, registi, sceneggiatori vari di propormi una storia di cui io non possa indovinare la fine dopo il primo capitolo, o spezzone di film, o puntata, mi portava a pensare che avrei potuto perdere fiducia nell’autrice, perché temevo che la storia potesse essere banale.

Tanto per dirne una, poiché i tre volumi della prima saga di chiamavano “Red”, “Blue” e “Green” (in originale “Rubinrot”, “Saphirblau” e “Smaragdgrün”, ovvero rosso-rubino, blu-zaffiro e verde-smeraldo) ho ovviamente pensato che il seguito di “Silver” si sarebbe chiamato “Gold”, e il terzo volume “Platinum”. Scusate, ma dubitare è lecito. Pensavo che, essendo “Silver” il cognome della protagonista, però, magari non sarebbe stato così. E ho appena scoperto che la mia seconda ipotesi era giusta. A quanto ho capito anche gli altri si chiameranno così, con l’aggiunta di un sottotitolo.
Inoltre, dopo avere indovinato tutta l’esatta trama e la fine precisa nel dettaglio di “Shadowhunters, le origini: La principessa”, ultimo volume della trilogia vittoriana di Cassandra Clare, capirete bene che pensavo di capire dove la trama volesse andare a parare sin da questo primo volume.

Ebbene, sono davvero deliziata di dirvi che non ho la più pallida idea di dove la trama voglia andare a parare. A maggior ragione perché la storia sembrerebbe essersi conclusa più o meno decentemente così. Cioè, mi spiego meglio: alcune cose rimangono in sospeso, e viene anche introdotto un cliffhanger finale, ma non sono cose che ti fanno rimanere con il fiato sospeso a mangiarti le unghie fino a farle sanguinare aspettando il seguito.

Adesso, visto che ho l’impressione che la recensione andrà degenerando in una serie di considerazioni senza logica (a mia discolpa ho finito di leggere il libro cinque minuti prima di stilare la recensione, e l’ho letto in solo qualche ora, quindi capirete che sono un po’ trafelata), cercherò di fare un po’ di ordine, e stilare innanzitutto una lista (tanto per cambiare) di quello che vorrei dire: la trama, senza spoiler; considerazioni sui personaggi; ipotesi su cosa potrebbe accadere in futuro; paragone con la trilogia precedente.

Bene, iniziamo dalla trama. Poiché ho ereditato dalla nonna materna la totale incapacità di raccontare una trama senza andare nel dettaglio di ogni vicenda (di solito, a voce, il racconto di una trama da parte mia dura più o meno quanto la lettura del romanzo stesso), vi risparmio pagine e pagine di sproloqui e ricopio la trama papale papale dalla copertina:

Le porte dei sogni.
Porte con maniglie a forma di lucertola che si spalancano su luoghi misteriosi, statue che parlano, una bambinaia impazzita che si aggira con una scure in mano… I sogni di Liv Silver, quindici anni, negli ultimi tempi sono piuttosto agitati. Soprattutto quello in cui si ritrova di notte in un cimitero a spiare quattro ragazzi impegnati in un inquietante rituale esoterico. E questi tipi hanno un legame con la vita vera di Liv, perché Grayson e i suoi amici sono reali: frequentano la stessa scuola, da quando Liv si è trasferita a Londra. Anzi, per dirla tutta, Grayson è il figlio del nuovo compagno della mamma di Liv, praticamente un fratellastro. Meno male che sono tutti abbastanza simpatici. Ma la cosa inquietante – persino più inquietante di un cimitero di notte – è che loro sanno delle cose su Liv che lei non ha mai rivelato, cose che accadono solo nei suoi sogni. Come ciò possa avvenire resta un mistero, esattamente il genere di mistero davanti al quale Liv non sa resistere…

Oddio, non apprezzo particolarmente il modo di esporre la trama sulle copertine dei romanzi, perché spesso depistano quanto i trailer maledetti dei telefilm della CW, che mostrano scene che non avverranno mai (se seguite “The Vampire Diaries”, soffrite certamente per questo motivo) o fanno intendere cose che avverranno in tutt’altro modo. Oltretutto sono scritte in un modo che vorrebbe apparire accattivante, e invece secondo me banalizzano all’estremo. Ora non so voi, ma per come è esposta la trama di “Silver” io non lo leggerei. È scritta che nemmeno la trama di un libro di Geronimo Stilton.
Mi sento in dovere di completarla (ed ecco che non mantengo fede al mio impegno di non dire troppo, ma prometto, prometto davvero che non farò spoiler): Liv ha quasi sedici anni, una sorella minore di nome Mia di tredici, una bambinaia tedesca di nome Lottie, una madre insegnante di letteratura, un padre ingegnere, genitori separati, troppi traslochi alle spalle nei posti più lontani (da Berkeley in California ad Sudafrica), una passione per Sherlock Holmes, una cagnolina di nome Princess Buttercup formerly knwon as Doctor Watson (ma detta solo Butter) ed è esperta di kung fu.
Si trasferisce a Londra dove la madre ha trovato un nuovo compagno, Ernest Spencer, il quale ha due figli gemelli di diciassette anni, Grayson e Florence, e un gatto di nome Spot.
Grayson ha tre migliori amici che sono strafighi quanto lui: il mio preferito Henry, “Ken-look-con-barba” Jasper, “il ragazzo più bello dell’emisfero occidentale” Arthur.

Detto questo posso iniziare a fare le mie considerazioni: Liv è una protagonista come si deve. È bella, ma non lo sa e non ci si sente, ma non per questo è complessata del tipo “nessuno al mondo mi vuole”, e ringrazio Dio per questo, come ringraziavo per la stessa qualità in Gwendolyn, nell’altra trilogia. Una ragazza non può essere consapevole di non essere Charlize Theron senza che tutti quanti le inizino a fare il lavaggio del cervello su come “Ma che dici! La vera bellezza sta dentro di noi, ognuno è bello così com’è, non sei affatto brutta, non deprimerti, non essere complessata, il mondo è bello perché è vario, non piangere sul latte versato, più buio di mezzanotte non può fare, non bagnarti prima che piova, ambarabaciccicoccò”. Liv è consapevole dei suoi difetti ma non se ne fa un cruccio, anche perché gli altri la trovano bellissima ugualmente. Oltretutto è intelligente, di quelle intelligenze vispe, non da secchione, spiritosa, ironica e autoironica, razionale senza diventare bacchettona. Ma è anche una ragazza di quasi sedici anni che si prende una cotta (a mio avviso anche più di una) e, come tutte le persone innamorate, quando compare lui lei è tutta zucchero filato rosa e unicorni alati che volano verso il tramonto.

La sorellina, Mia, ha davvero un bel caratterino, è pungente e sagace ed è ancora in quell’età in cui l’altro sesso è una minaccia e le smancerie da coppiette sono vomitevoli.
Lottie è tutta un programma. Così adorabile che non si può non amarla.
La madre delle ragazze in realtà non la sopporto granché. Più di una volta avrei avuto voglia di urlarle addosso, perché è una di quelle madri che hanno l’impressione che le figlie abbiano perennemente tre anni e le mettono in imbarazzo in continuazione. Orrore.
La famiglia di Ernest è una di quelle famiglie perfettine, i cui figli, tra l’altro, sono esageratamente belli, senza che questo rechi particolare disturbo a Liv e Mia. E il fatto che Florence abbia scatti di isteria perché molto contrariata di dover convivere con la neo-acquisita famiglia, invece di renderla insopportabile, la rende simpatica agli occhi delle sorelle.

Grayson, Grayson, Grayson. Dove vuole andare a parare il tuo personaggio? Ne tratterò nella sezione sullo ipotesi per il futuro. Ad ogni modo lui e i suoi amici sono i più popolari della scuola, e, se io avessi avuto dei ragazzi come loro nel mio liceo, invece della fauna che lo popolava, non li avrei certo biasimati per essere il centro dell’attenzione. Certo è un po’ un cliché che i ragazzi che introducono l’elemento misterioso nei romanzi/film/telefilm debbano sempre essere degli strafighi che nemmeno il sole è così luminoso. Mi chiedo se non sia il mistero stesso che li contagia e li rende più belli. Questo spiegherebbe perché invece nel mondo reale c’è penuria di abbaglianti bellezze maschili. Non succede niente di strano = niente mistero = niente bellezza michelangiolesca.

I ragazzi sono estremamente diversi tra di loro, e il fatto che siano quattro aumenta il numero di lati che la figura geometrica amorosa assumerebbe se ci fosse un particolare interesse della protagoniste per tutti loro. Insomma, più che un tradizionale triangolo qui potremmo avere un pentagono. Ma per fortuna non tutti sembrano essere concorrenti di questo gioco. Il bellissimo Arthur, ad esempio, non parteciperebbe a questa ruota della fortuna. E me ne compiaccio, perché, sebbene sia considerato il più bello, è anche quello che mi piace di meno.
Lo stupido Jasper è così ingenuamente scemo che gli voglio bene. Non si può odiare lo scemo della situazione. Credo che anche lui sia troppo preso dalla sua ex, con cui ha un rapporto conflittuale, per interessarsi davvero a Liv, sebbene sia stato lui a notare per primo la sua bellezza (precisamente le sue belle gambe)  e abbia anche tentato di usarla come esca per ingelosire l’ex di cui sopra.
Rimane quindi Henry. Che è il mio preferito, perché le brave ragazze devono sempre cascare come le pere cotte per i ragazzi strafottenti e misteriosi. Henry ha l’aspetto meno angelico dei nostri fantastici quattro, quello che tiene più cose per sé, quello il cui comportamento non è sempre – veramente quasi mai – cristallino, quello che insomma fa sciogliere me come burro al sole.

Passiamo alle ipotesi su cosa potrebbe accadere, e qui devo fare due piccole premesse (tanto la recensione è già un papiro):
  1. Per tutta una serie di ragioni, sono portata sempre a elaborare teorie della cospirazione.
  2. Dopo avere letto il romanzo “Proibito” di Tabitha Suzuma, non mi faccio più di tanto problemi per le storie d’amore tra fratell(astr)o e sorella(stra).
Tra breve capirete perché ho fatto questo due affermazioni.

Quello che ho tralasciato di dire è che nella scuola di Liv esiste un blog chiamato “Tittle-tattle”, tenuto da un/a certo/a Secrecy, una sorta di Gossip Girl che sa i fatti di tutti e si premura di spiattellarli sul suo blog. Ora, considerando che sono reduce da una maratona di una stagione di “Pretty Little Liars” nel weekend, potete ben capire (se conosce la serie) che non posso pensare che una persona che ottiene informazioni sui fatti di tutti li ottenga in modo ortodosso. Ecco da dove viene fuori la mia teoria della cospirazione. Però, devo ammettere, l’ultimo post del Tittle-talle citato nel romanzo sembrerebbe indicare che Secrecy non sappia proprio tutto, ovvero non sappia cosa è successo davvero a Liv e ai fantastici quattro, e non sospetti strane attività da parte loro, come l’incontrarsi nei sogni, che, nel caso avessi dimenticato di dirlo, è il fulcro del romanzo. Staremo a vedere se Secrecy avrà un ruolo più importante nella storia dal secondo volume in poi. D’altra parte, gli spezzoni che dividevano i capitoli ne “La trilogia delle gemme” erano come i pezzi di un puzzle che il lettore poteva mettere insieme per costruire pian piano la verità e cogliere alcuni segreti. Non capisco bene se i post di Secrecy abbiano lo stesso valore.

Wanna take bets?
Il mio secondo punto l’ho introdotto perché nessuno può togliermi dalla testa che nel secondo volume si creerà un triangolo amoroso tra Liv, Henry e Grayson. La Gier non mi pare il tipo alla Tabitha Suzuma, che fa mettere insieme due fratelli di sangue, ma considerando che Grayson e Liv non sono fratelli di sangue nemmeno per una goccia, non ci sarebbe nemmeno un impedimento. Oltretutto questo tema dei fratelli è presente in molti romanzi: Clary e Jace sospettano di esserlo per tre libri buoni eppure pomiciano ugualmente; Miki e Yu di “Piccoli problemi di cuore” decidono di stare insieme anche se (pensano di essere) fratelli; Cercei e Jamie Lannister poi vi dicono qualcosa?
Quindi, a maggior ragione che qui i due non hanno nemmeno motivo di pensare di essere imparentati, non ci sarebbe affatto problema.
Non lo dico perché tifo per Grayson, lo dico perché ho interpretato alcuni segnali come un reciproco interesse da parte dei due (soprattutto da parte di lui, devo dire): lei che ogni tanto si incanta a guardarlo e si sorprende a commentare il suo bell’aspetto, lui che reagisce in modo strano quando la vede con Henry, lui che la guarda in modo strano, che dice e fa cose strane… non faccio spoiler, ma soprattutto quello che fa alla fine per Liv, che lei considera un gesto puramente fraterno, mi ha fatta esclamare “Fraterno un corno! Questo è cotto!”.
Una piccolissima parte di me ci spera, perché lui ha i capelli biondi e gli occhi castani e io AMO questa combinazione più di ogni altra, e poi lui le ha dato la sua felpa e io questa la considero una delle cose più carine che possano succedere. Una ragazza con la felpa di un ragazzo. Vomito arcobaleni.
Però Henry mi piace di più, anche se ha gli occhi grigi, e quindi sono Team Henry. Ma quanto volete scommettere che Liv finirà con Grayson? Accetto scommesse. E spero francamente di perdere, perché vincere non mi converrebbe.

Infine parlo brevemente del rapporto con la trilogia precedente: un lettore attento riconoscerà facilmente alcuni punti in comune (i topi, i ragni, l’incapacità di Liv di comprendere il latino, proponendo buffissime traduzioni maccheroniche, la gente dai nomi pomposi (lì avevamo James Pimplebottom, qui abbiamo Persefone Porter-Peregrin), l’ambientazione a Londra, la paura del sangue di Liv, ecc.) che non mi fanno sembrare il libro un déjà vu, anzi, li ho molto apprezzati.

Alcune frasi, devo ammettere, mi sono suonate un po’ strane in italiano, e non capisco se sia colpa della traduzione o cos’altro. Troppi “a me mi”, “a noi ci”, “a voi vi”.

Infine: l’idea principale è davvero intrigante e non vedo l’ora di saperne di più; non so dove la trama voglia andare a sfociare e questo è un gran punto a favore; non mi aspettavo che finisse come è finita e questo è un altro grosso punto a favore; per concludere: per adesso la Gier non ha superato se stessa, continuo a preferire la trilogia precedente. Ma non si sa mai che ci sorprenda con il seguito, che uscirà (non in Italia) il 26 giugno. Aspetto con impazienza di leggerlo.

Se siete rimasti con me fin proprio alla fine.
Detto questo, mi complimento per quanti sono riusciti a resistere fino a alla fine, perché ho scritto davvero tantissimo. Giusto la volta scorsa mi sentivo fiera di essere riuscita a recensire “Estasi culinarie” senza superare le due pagine di Word, e qui sono già a cinque. E se penso che ho anche dovuto ridimensionare quello che volevo dire, mi viene mal di testa solo a pensare quanto avrei potuto scrivere.
A presto, spero, quindi, con un altro post! Fatemi sapere cosa pensate di questo romanzo, se lo avete letto, o se vi ho incuriositi a leggere qualcosa della Gier, nel caso in cui non lo abbiate fatto!
Smack,

Andra

domenica 9 febbraio 2014

Recensione #2: Estasi culinarie di Muriel Barbery

Buongiorno, lettori!

Ho passato gli ultimi giorni a pubblicizzare il blog, cosa che mi ha portato via molto tempo, non tanto perché sia così difficile quanto perché io sono molto incapace quando si tratta di uscire dall’universo di Facebook. Insomma, il resto del web non è così immediato da comprendere per me (e con “il resto del web” intendo “gli altri social network”, i vari Twitter, Pinterest, LinkedIn e roba varia che per me costituiscono un mistero della fede). Ad ogni modo adesso trovate la pagina di Facebook più o meno aggiornata (qui) e anche una pagina su Pinterest (qui: è stato l’unico altro social network che ho più o meno compreso).

Copertina della mia edizione.
Adesso invece, giusto perché sto mangiando un cornetto appena sfornato ( = ho messo un cornetto da supermercato dentro al forno e adesso faccio finta che sia un croissant francese appena fatto) ho deciso di recensire il libro che ho appena finito, “Estasi culinarie” di Muriel Barbery. Alla faccia del fatto che sulla sinistra, nel blog, trovate scritto che sto leggendo “Il visconte di Bragelonne”, in realtà ultimamente ho letto il libro che sto per recensire. Ciò non vuol dire che io non stia leggendo Dumas. Ma Dumas ha più di mille pagine, la Barbery ne ha centoquarantadue (oggi mi è presa la mania di scrivere i numeri in lettere, chiedo perdono) quindi capite quanto mi sia venuto semplice leggere “Estasi culinarie” in qualche ora, lasciando un attimo da parte il caro Visconte.

Faccio una premessa: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery è nella santa trinità dei miei romanzi preferiti. Conosco gente che lo ha letto ed è rimasta del tutto indifferente. Voi direte, come di solito dico io, “Be’, de gustibus non disputandum est”. E avete sicuramente ragione. Ma le persone che amano la filosofia e la lingua che parlano non possono rimanere indifferenti di fronte a cotanta perfezione. Perché quel romanzo è la Perfezione. È scritto in un modo così impeccabile che mi commuove (lasciamo perdere i “sé stesso” che non mi garbano perché sono una fan del “se stesso”, senza accento, perché non sono colpa della Barbery) e lo stile, così sottilmente ironico nelle parti di Renée, così pungente in quelle di Paloma, ah! niente, mi fa venire la pelle d’oca.

Detto questo, ovviamente sono partita con le aspettative talmente alte che superavano le stelle, arrivavano proprio in una galassia lontana, lontana, dove stanno girando il sequel/prequel di “Star Wars”. A maggior ragione perché mi è stato consigliato da un amico del cui giudizio mi fido come del mio (che, a differenza degli altri stolti bifolchi (alla faccia del “de gustibus”), aveva apprezzato “L’eleganza del riccio”), cosa rara per me, che di solito non mi trovo molto d’accordo con la maggior parte dei coetanei.

Le aspettative non sono state deluse. Sebbene il libro sia antecedente rispetto alla già citata Eleganza, e abbastanza lontano nel genere, è scritto in maniera altrettanto sublime. Non è stato come per i libri di Zafón, che la Mondadori ha pubblicato in ordine inverso rispetto alla pubblicazione originale, in maniera davvero poco furba. Leggere quei libri in quell’ordine è stato come assistere a un’involuzione dell’autore, quando invece, se fossero stati letti nell’ordine giusto, avremmo potuto apprezzarne l’evoluzione. E poi esce l’ultimo volume, “Il prigioniero del cielo”, l’ultimo pubblicato anche in Spagna, e il lettore si trova spaesato, lo stile sembra altalenante.

Giustamente il discorso è diverso perché i due libri della Barbery non sono i tanti di Zafón, ma il punto voleva essere che “Estasi culinarie” non è affatto inferiore a “L’eleganza del riccio” nello stile. Certamente è molto diverso, anche se un fil rouge li collega. Anzi, anche più di un filo.

Innanzitutto la molteplicità di narratori. Ne “L’eleganza del riccio” sono solo due, quello della portiera Renée, vera protagonista del romanzo, e quello della dodicenne Paloma. Qui, invece, il protagonista è il morente critico gastronomico Pierre Arthens, ma le sue parti si frappongono tra quelle di tutta una serie di personaggi diversi: la moglie, i figli, le amanti, gli amici, i conoscenti, la portinaia (sempre Renée, perché l’ambientazione di questo romanzo è la stessa di quello successivo), il barbone della strada, il gatto (ebbene sì, anche il gatto). Quasi tutti sono sue vittime, persone che sono state schiacciate, umiliate, denigrate e nullificate durante la loro vita dal grande critico, e che provano sentimenti che vanno dall’amore cieco all’odio più profondo nei suoi confronti. Grande critico che, in punto di morte, cerca di riportare alla mente un sapore perduto, un vero sapore, qualcosa di primordiale, qualcosa che conosceva quando era giovane, non un piatto prelibato, non una squisitezza da ristorante cinque stelle.

L’altro fil rouge è ovviamente, come ho accennato, l’ambientazione: il signorile palazzo di rue de Grenelle. Tutti i personaggi sono gli stessi che compaiono anche ne “L’eleganza del riccio”. La stessa morte di Arthens è descritta anche lì, anche se da tutt’altro punto di vista e ovviamente con meno enfasi.

La diversità sta nel modo in cui viene portata avanti la narrazione. I dialoghi sono quasi inesistenti, perché tutto ruota intorno alle descrizioni: descrizioni soprattutto di cibi da parte di Arthens, che si aggrappa a tutti i suoi ricordi tentando di afferrare l’inafferrabile, e descrizioni di Arthens da parte di tutti gli altri. Sono descrizioni talmente ben strutturate, talmente ben fatte, talmente ricche ed eleganti e vere che ieri, quando ho finito di leggere il libro, all’ora di pranzo, ho assaporato la mia pasta con la salsa di pomodoro e le mie fettine di salame alle erbette come se fossero stati gli ultimi cibi della mia vita. Anche poco fa, mentre mordevo il mio croissant, nella mia mente lo descrivevo nello stesso modo in cui Arthens descrive i suoi cibi. Mordere quel croissant confezionato è stata un’esperienza mistica.

L’altra enorme differenza sta nella filosofia, che era una colonna portante de “L’eleganza del riccio” e che invece qui manca. Come manca una vera e propria trama. Non c’è azione, quindi non può esserci una trama. E va benissimo così, perché una trama avrebbe distratto dal vero protagonista, che ai miei occhi è più il cibo che Arthens.

In conclusione lo consiglio vivamente. Anche perché leggerlo non costa tempo né particolare impegno intellettuale. Si finisce in un paio d’ore e si rimane con una piacevole sensazione (e anche con tanta fame, vi avviso).

Detto questo, sono contenta di avere finalmente scritto un post che è più legato al fine originario del blog.


A presto!

Andra