domenica 9 febbraio 2014

Recensione #2: Estasi culinarie di Muriel Barbery

Buongiorno, lettori!

Ho passato gli ultimi giorni a pubblicizzare il blog, cosa che mi ha portato via molto tempo, non tanto perché sia così difficile quanto perché io sono molto incapace quando si tratta di uscire dall’universo di Facebook. Insomma, il resto del web non è così immediato da comprendere per me (e con “il resto del web” intendo “gli altri social network”, i vari Twitter, Pinterest, LinkedIn e roba varia che per me costituiscono un mistero della fede). Ad ogni modo adesso trovate la pagina di Facebook più o meno aggiornata (qui) e anche una pagina su Pinterest (qui: è stato l’unico altro social network che ho più o meno compreso).

Copertina della mia edizione.
Adesso invece, giusto perché sto mangiando un cornetto appena sfornato ( = ho messo un cornetto da supermercato dentro al forno e adesso faccio finta che sia un croissant francese appena fatto) ho deciso di recensire il libro che ho appena finito, “Estasi culinarie” di Muriel Barbery. Alla faccia del fatto che sulla sinistra, nel blog, trovate scritto che sto leggendo “Il visconte di Bragelonne”, in realtà ultimamente ho letto il libro che sto per recensire. Ciò non vuol dire che io non stia leggendo Dumas. Ma Dumas ha più di mille pagine, la Barbery ne ha centoquarantadue (oggi mi è presa la mania di scrivere i numeri in lettere, chiedo perdono) quindi capite quanto mi sia venuto semplice leggere “Estasi culinarie” in qualche ora, lasciando un attimo da parte il caro Visconte.

Faccio una premessa: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery è nella santa trinità dei miei romanzi preferiti. Conosco gente che lo ha letto ed è rimasta del tutto indifferente. Voi direte, come di solito dico io, “Be’, de gustibus non disputandum est”. E avete sicuramente ragione. Ma le persone che amano la filosofia e la lingua che parlano non possono rimanere indifferenti di fronte a cotanta perfezione. Perché quel romanzo è la Perfezione. È scritto in un modo così impeccabile che mi commuove (lasciamo perdere i “sé stesso” che non mi garbano perché sono una fan del “se stesso”, senza accento, perché non sono colpa della Barbery) e lo stile, così sottilmente ironico nelle parti di Renée, così pungente in quelle di Paloma, ah! niente, mi fa venire la pelle d’oca.

Detto questo, ovviamente sono partita con le aspettative talmente alte che superavano le stelle, arrivavano proprio in una galassia lontana, lontana, dove stanno girando il sequel/prequel di “Star Wars”. A maggior ragione perché mi è stato consigliato da un amico del cui giudizio mi fido come del mio (che, a differenza degli altri stolti bifolchi (alla faccia del “de gustibus”), aveva apprezzato “L’eleganza del riccio”), cosa rara per me, che di solito non mi trovo molto d’accordo con la maggior parte dei coetanei.

Le aspettative non sono state deluse. Sebbene il libro sia antecedente rispetto alla già citata Eleganza, e abbastanza lontano nel genere, è scritto in maniera altrettanto sublime. Non è stato come per i libri di Zafón, che la Mondadori ha pubblicato in ordine inverso rispetto alla pubblicazione originale, in maniera davvero poco furba. Leggere quei libri in quell’ordine è stato come assistere a un’involuzione dell’autore, quando invece, se fossero stati letti nell’ordine giusto, avremmo potuto apprezzarne l’evoluzione. E poi esce l’ultimo volume, “Il prigioniero del cielo”, l’ultimo pubblicato anche in Spagna, e il lettore si trova spaesato, lo stile sembra altalenante.

Giustamente il discorso è diverso perché i due libri della Barbery non sono i tanti di Zafón, ma il punto voleva essere che “Estasi culinarie” non è affatto inferiore a “L’eleganza del riccio” nello stile. Certamente è molto diverso, anche se un fil rouge li collega. Anzi, anche più di un filo.

Innanzitutto la molteplicità di narratori. Ne “L’eleganza del riccio” sono solo due, quello della portiera Renée, vera protagonista del romanzo, e quello della dodicenne Paloma. Qui, invece, il protagonista è il morente critico gastronomico Pierre Arthens, ma le sue parti si frappongono tra quelle di tutta una serie di personaggi diversi: la moglie, i figli, le amanti, gli amici, i conoscenti, la portinaia (sempre Renée, perché l’ambientazione di questo romanzo è la stessa di quello successivo), il barbone della strada, il gatto (ebbene sì, anche il gatto). Quasi tutti sono sue vittime, persone che sono state schiacciate, umiliate, denigrate e nullificate durante la loro vita dal grande critico, e che provano sentimenti che vanno dall’amore cieco all’odio più profondo nei suoi confronti. Grande critico che, in punto di morte, cerca di riportare alla mente un sapore perduto, un vero sapore, qualcosa di primordiale, qualcosa che conosceva quando era giovane, non un piatto prelibato, non una squisitezza da ristorante cinque stelle.

L’altro fil rouge è ovviamente, come ho accennato, l’ambientazione: il signorile palazzo di rue de Grenelle. Tutti i personaggi sono gli stessi che compaiono anche ne “L’eleganza del riccio”. La stessa morte di Arthens è descritta anche lì, anche se da tutt’altro punto di vista e ovviamente con meno enfasi.

La diversità sta nel modo in cui viene portata avanti la narrazione. I dialoghi sono quasi inesistenti, perché tutto ruota intorno alle descrizioni: descrizioni soprattutto di cibi da parte di Arthens, che si aggrappa a tutti i suoi ricordi tentando di afferrare l’inafferrabile, e descrizioni di Arthens da parte di tutti gli altri. Sono descrizioni talmente ben strutturate, talmente ben fatte, talmente ricche ed eleganti e vere che ieri, quando ho finito di leggere il libro, all’ora di pranzo, ho assaporato la mia pasta con la salsa di pomodoro e le mie fettine di salame alle erbette come se fossero stati gli ultimi cibi della mia vita. Anche poco fa, mentre mordevo il mio croissant, nella mia mente lo descrivevo nello stesso modo in cui Arthens descrive i suoi cibi. Mordere quel croissant confezionato è stata un’esperienza mistica.

L’altra enorme differenza sta nella filosofia, che era una colonna portante de “L’eleganza del riccio” e che invece qui manca. Come manca una vera e propria trama. Non c’è azione, quindi non può esserci una trama. E va benissimo così, perché una trama avrebbe distratto dal vero protagonista, che ai miei occhi è più il cibo che Arthens.

In conclusione lo consiglio vivamente. Anche perché leggerlo non costa tempo né particolare impegno intellettuale. Si finisce in un paio d’ore e si rimane con una piacevole sensazione (e anche con tanta fame, vi avviso).

Detto questo, sono contenta di avere finalmente scritto un post che è più legato al fine originario del blog.


A presto!

Andra

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