Buongiorno,
lettori!
Ho passato gli
ultimi giorni a pubblicizzare il blog, cosa che mi ha portato via molto tempo,
non tanto perché sia così difficile quanto perché io sono molto incapace quando
si tratta di uscire dall’universo di Facebook. Insomma, il resto del web non è
così immediato da comprendere per me (e con “il resto del web” intendo “gli
altri social network”, i vari Twitter, Pinterest, LinkedIn e roba varia che per
me costituiscono un mistero della fede). Ad ogni modo adesso trovate la pagina
di Facebook più o meno aggiornata (qui) e anche una pagina su Pinterest (qui: è
stato l’unico altro social network che ho più o meno compreso).
Copertina della mia edizione. |
Adesso invece,
giusto perché sto mangiando un cornetto appena sfornato ( = ho messo un
cornetto da supermercato dentro al forno e adesso faccio finta che sia un
croissant francese appena fatto) ho deciso di recensire il libro che ho appena
finito, “Estasi culinarie” di Muriel Barbery. Alla faccia del fatto che sulla
sinistra, nel blog, trovate scritto che sto leggendo “Il visconte di Bragelonne”,
in realtà ultimamente ho letto il libro che sto per recensire. Ciò non vuol
dire che io non stia leggendo Dumas. Ma Dumas ha più di mille pagine, la
Barbery ne ha centoquarantadue (oggi mi è presa la mania di scrivere i numeri
in lettere, chiedo perdono) quindi capite quanto mi sia venuto semplice leggere
“Estasi culinarie” in qualche ora, lasciando un attimo da parte il caro Visconte.
Faccio una
premessa: “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery è nella santa trinità dei
miei romanzi preferiti. Conosco gente che lo ha letto ed è rimasta del tutto indifferente.
Voi direte, come di solito dico io, “Be’, de
gustibus non disputandum est”. E avete sicuramente ragione. Ma le persone
che amano la filosofia e la lingua che parlano non possono rimanere
indifferenti di fronte a cotanta perfezione. Perché quel romanzo è la Perfezione. È scritto in un
modo così impeccabile che mi commuove (lasciamo perdere i “sé stesso” che non
mi garbano perché sono una fan del “se stesso”, senza accento, perché non sono
colpa della Barbery) e lo stile, così sottilmente ironico nelle parti di Renée,
così pungente in quelle di Paloma, ah! niente, mi fa venire la pelle d’oca.
Detto questo,
ovviamente sono partita con le aspettative talmente alte che superavano le
stelle, arrivavano proprio in una galassia
lontana, lontana, dove stanno girando il sequel/prequel di “Star Wars”. A maggior
ragione perché mi è stato consigliato da un amico del cui giudizio mi fido come
del mio (che, a differenza degli altri stolti bifolchi (alla faccia del “de gustibus”), aveva apprezzato “L’eleganza
del riccio”), cosa rara per me, che di solito non mi trovo molto d’accordo con
la maggior parte dei coetanei.
Le aspettative
non sono state deluse. Sebbene il libro sia antecedente rispetto alla già
citata Eleganza, e abbastanza lontano
nel genere, è scritto in maniera altrettanto sublime. Non è stato come per i
libri di Zafón, che la Mondadori ha pubblicato in ordine inverso rispetto alla
pubblicazione originale, in maniera davvero poco furba. Leggere quei libri in
quell’ordine è stato come assistere a un’involuzione dell’autore, quando
invece, se fossero stati letti nell’ordine giusto, avremmo potuto apprezzarne l’evoluzione.
E poi esce l’ultimo volume, “Il prigioniero del cielo”, l’ultimo pubblicato
anche in Spagna, e il lettore si trova spaesato, lo stile sembra altalenante.
Giustamente il
discorso è diverso perché i due libri della Barbery non sono i tanti di Zafón,
ma il punto voleva essere che “Estasi culinarie” non è affatto inferiore a “L’eleganza
del riccio” nello stile. Certamente è molto diverso, anche se un fil rouge li collega. Anzi, anche più di
un filo.
Innanzitutto la
molteplicità di narratori. Ne “L’eleganza del riccio” sono solo due, quello
della portiera Renée, vera protagonista del romanzo, e quello della dodicenne
Paloma. Qui, invece, il protagonista è il morente critico gastronomico Pierre
Arthens, ma le sue parti si frappongono tra quelle di tutta una serie di
personaggi diversi: la moglie, i figli, le amanti, gli amici, i conoscenti, la
portinaia (sempre Renée, perché l’ambientazione di questo romanzo è la stessa
di quello successivo), il barbone della strada, il gatto (ebbene sì, anche il
gatto). Quasi tutti sono sue vittime, persone che sono state schiacciate,
umiliate, denigrate e nullificate durante la loro vita dal grande critico, e che
provano sentimenti che vanno dall’amore cieco all’odio più profondo nei suoi
confronti. Grande critico che, in punto di morte, cerca di riportare alla mente
un sapore perduto, un vero sapore, qualcosa di primordiale, qualcosa che
conosceva quando era giovane, non un piatto prelibato, non una squisitezza da
ristorante cinque stelle.
L’altro fil rouge è ovviamente, come ho
accennato, l’ambientazione: il signorile palazzo di rue de Grenelle. Tutti i
personaggi sono gli stessi che compaiono anche ne “L’eleganza del riccio”. La stessa
morte di Arthens è descritta anche lì, anche se da tutt’altro punto di vista e
ovviamente con meno enfasi.
La diversità sta
nel modo in cui viene portata avanti la narrazione. I dialoghi sono quasi
inesistenti, perché tutto ruota intorno alle descrizioni: descrizioni
soprattutto di cibi da parte di Arthens, che si aggrappa a tutti i suoi ricordi
tentando di afferrare l’inafferrabile, e descrizioni di Arthens da parte di
tutti gli altri. Sono descrizioni talmente ben strutturate, talmente ben fatte,
talmente ricche ed eleganti e vere che ieri, quando ho finito di leggere il
libro, all’ora di pranzo, ho assaporato la mia pasta con la salsa di pomodoro e
le mie fettine di salame alle erbette come se fossero stati gli ultimi cibi
della mia vita. Anche poco fa, mentre mordevo il mio croissant, nella mia mente
lo descrivevo nello stesso modo in cui Arthens descrive i suoi cibi. Mordere quel
croissant confezionato è stata un’esperienza mistica.
L’altra enorme
differenza sta nella filosofia, che era una colonna portante de “L’eleganza del
riccio” e che invece qui manca. Come manca una vera e propria trama. Non c’è
azione, quindi non può esserci una trama. E va benissimo così, perché una trama
avrebbe distratto dal vero protagonista, che ai miei occhi è più il cibo che
Arthens.
In conclusione
lo consiglio vivamente. Anche perché leggerlo non costa tempo né particolare
impegno intellettuale. Si finisce in un paio d’ore e si rimane con una piacevole
sensazione (e anche con tanta fame, vi avviso).
Detto questo,
sono contenta di avere finalmente scritto un post che è più legato al fine
originario del blog.
A presto!
Andra
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